L’omicidio di Chiara Gualzetti spinge a guardare più profondamente nelle dinamiche che coinvolgono dimensioni di grave anaffettività. L’assurda tragedia della sua morte non può essere archiviata solo con una condanna esemplare

«Mi dicono che ho un bel corpo, mi dicono che sono intelligente e bella… E va sempre a finire che quando lo dicono, lo dicono per approfittarsi del mio corpo e della mia intelligenza. Oppure spariscono perché si stancano di provare a usare il mio corpo e si stancano della mia intelligenza»: è amaro il racconto delle sue delusioni di quindicenne che Chiara lanciava sui social, di un’amarezza che oggi, all’indomani della sua tragica morte, ci sembra ingenua. Il suo feroce assassino, subito dopo averla uccisa con il coltello nascosto nello zaino che Chiara sperava contenesse un regalo per lei, scrive a un’amica: «Questa è depressa, l’ho fatto, me l’ha detto lui. Lei mi urtava i nervi». Pare che la ragazza si fosse invaghita di lui, e questo sarebbe l’assurdo movente dell’omicidio: eliminare questa pretesa di affetti, di umana reciprocità, l’adolescenziale slancio verso l’altro.

La glaciale lucidità con cui l’assassino appena sedicenne ha messo in atto il suo piano è stata interpretata come piena capacità d’intendere e volere dal Gip del Tribunale per i minorenni di Bologna che ha convalidato il fermo del ragazzo, «e ciò anche nel caso di eventuali problemi psicologici, quali in effetti e precedentemente ai fatti già occasionalmente emersi», precisa il Gip Luigi Martello.

Eppure le questioni aperte da questa storia sconvolgente, innanzitutto per l’età della vittima e del suo carnefice, sono così complesse da…

* La psichiatra e psicoterapeuta Barbara Pelletti è presidente dell’associazione Cassandra


L’articolo prosegue su Left del 9-15 luglio 2021

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