Simona Baldanzi, nata in una famiglia operaia, è una scrittrice con una sua riconoscibile fisionomia e coerenza militante, che si è imposta all’attenzione per essere arrivata finalista al Premio Campiello Giovani nel 1996, e successivamente con il romanzo Figlia di una vestaglia blu (Fazi, 2006, ristampato nel 2019 da Alegre nella collana Working class diretta da Alberto Prunetti). Scrive romanzi, reportage narrativi e inchieste, narrazioni della viandanza, ma interviene anche sui temi della politica, e in passato è stata capogruppo di Rifondazione comunista nel comune di Barberino di Mugello. Da tre anni è rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale della Cgil nel territorio di Prato e provincia, nel settore dell’artigianato.
Tu sei una scrittrice che ha raccontato molto il mondo del lavoro, a cominciare dal tuo libro d’esordio di memoria famigliare, Figlia di una vestaglia blu, e nella vita sei una sindacalista della Cgil, come convivono questi due mondi?
Scrivere per me è anche rappresentare e viceversa, scrivere è cercare una voce e fare sindacato è mettere insieme le voci, scrivere è fare ricerca su di me e su ciò che mi circonda e fare sindacato è rimescolare ciò che imparo da queste ricerche. Sono mondi che se saputi mettere al servizio l’uno dell’altro possono essere potenti. Il primo atto di riconoscimento di una condizione, di una vita, di una persona, come di una lavoratrice o di un lavoratore è il raccontare. Ci si racconta per riconoscersi, per fare gruppo, per difendersi, per rivendicare, per migliorare. Da sindacalista e rappresentante dei lavoratori per la sicurezza mi capita di scrivere e scherzando dico che faccio spesso la ghostwriter per i lavoratori. Mi inorgoglisce. Il mondo del lavoro non è banale da raccontare: occorre appropriarsi di linguaggi, di processi, di strumenti, di verbi e nomi tutti suoi e che variano da contesto a contesto. Ci vuole ascolto, studio, umiltà. È sfidante e affascinante per chi scrive. Scrivere in più implica organizzarsi per farlo, darsi dei metodi, fare tentativi, sperimentare. Ciò che imparo dalla scrittura provo a portarlo nel sindacato e ciò che imparo dal sindacato lo porto nello scrivere. Non sempre è facile perché mentre la seconda operazione è solo mia, l’altra implica il confronto con gli altri e con un’organizzazione che difende se stessa troppo spesso appellandosi al pericoloso “abbiamo sempre fatto così”. Il sindacato è ancora troppo rigido, poco incline a mescolare, maschilista. Fortunatamente con molte compagne sindacaliste tentiamo di contaminarlo con un po’ di sano, fresco e pungente femminismo.
A proposito di questo tuo doppio osservatorio, di recente, dopo la morte di Luana D’Orazio, una lavoratrice tessile di 22 anni, hai scritto che a uccidere in fabbrica è l’organizzazione del lavoro, operai uccisi dal “lavoro grigio”.
Il dibattito sui macchinari insicuri viene dal dopoguerra e dagli anni Cinquanta in poi la legislazione si è andata strutturando e la tecnologia è via via progredita per darci macchine che si fermano se qualcosa non va grazie a fotocellule e protezioni. Se le manomettiamo togliendo le protezioni per fare prima, se dobbiamo correre sempre di più, se la filiera tessile spinge a fare prezzi sempre più al ribasso, se i contratti non sono regolari o l’inquadramento non prevede certe mansioni (e quindi non si è fatta l’adeguata formazione e addestramento) uccide un subbio di un orditoio o l’organizzazione che ha concesso che tutto questo succedesse? In questo sistema ci stiamo dentro anche da consumatori e da cittadini. Per questo salute e sicurezza sui luoghi di lavoro devono riguardare tutti e non solo chi vive quel tipo di lavoro. Andrebbe poi analizzato l’impatto di questa morte sul lavoro, le ragioni per cui ha fatto più eco di altre. In Italia i morti sul lavoro sono 3 o 4 al giorno e spesso non fanno notizia o sono solo trafiletti di poche righe. Luana D’Orazio ha stracciato la narrazione tossica, ha incrinato un immaginario distorto che c’è sul lavoro, che nega la presenza di giovani operaie ed operai. Contrastava l’immagine della giovane sorridente sui social e la brutalità della fine da altri tempi. Quest’attenzione però non dura e un problema di questa portata, strutturale (dunque non è un’emergenza), non può essere risolto con l’emotività. L’indignazione intermittente senza le azioni conseguenti rischia di acuire la percezione della disgrazia. Se invece si studiano le storie sui morti sul lavoro, le dinamiche, la fatalità non c’è mai, ma sono precise conseguenze di cose che non dovevano essere fatte.
Ti sei occupata anche dell’alta velocità con un reportage alla Orwell, Mugello sottosopra, un libro dichiaratamente militante. C’è chi ha scritto di recente un libro contro l’impegno degli scrittori, tu che ne pensi? Esiste davvero una letteratura working class?
I miei nonni hanno migliorato le loro vite grazie ad un accordo promosso da Di Vittorio che girò fra i campi nel Mugello e che fu siglato nel 1952 che diceva «da oggi cessano di essere mezzadri e diventano operai agricoli». Leggendo quell’accordo, che usa parole chiare e pulite (oggi gli accordi e i contratti sono un dedalo e un intreccio da perderci la testa per quanto incomprensibili o appunto interpretabili e anche dall’uso distorto della scrittura vediamo quanto potere di forza abbiamo perso) io ci ho letto una bella storia di tante famiglie. Non è letteratura? Sì, ma qualcuno si è impegnato a scrivere per difendere qualcun altro e per i coinvolti contano le conseguenze più del fatto che fosse un tipo di scrittura piuttosto che un’altra. Voglio dire che quella provocazione contro la letteratura di impegno mi pare riguardi solo noi che scriviamo e dove ci vogliamo posizionare: il resto del mondo se ne frega, vuole vivere meglio. Se legge, vorrà leggere meglio. Personalmente mi annoia anche il dibattito. La letteratura working class c’è anche se fatica a farsi spazio perché i racconti dominanti sono altri, perché l’editoria è in questo sistema di mercato, non ne è esclusa. “Il lavoro non tira, non vende” ti senti spesso dire. Si parla di letteratura del lavoro, meglio ancora di letteratura della classe lavoratrice quando la storia di lavoro diventa non più la tua o solo la tua, ma una storia universale, con una sua voce, uno stile, una potenza. Se poi questa letteratura diventa riconoscimento e strumento di dibattito e lotta non vedo che male fa. O meglio, a chi fa male lo so, ma non alla letteratura.
Poi ti sei messa a raccontare attraverso reportage di viaggio fatti a piedi, con lentezza, una trilogia che comprende anche il tuo ultimo libro Corpo Appennino, un cammino da Monte Sole a Sant’Anna di Stazzema. Perché questa scelta, questa forma corporale di raccontare gli altri, il mondo, ma anche i luoghi della Storia?
Non ci pensavo alla trilogia, non l’avevo pensata come progetto, è venuta inseguendo domande, curiosando, rimettendomi in cammino. Vivo in un territorio da sempre impregnato di cantieri come l’alta velocità, l’autostrada e la variante di valico, l’invaso di Bilancino. Ambiente e lavoro sono sempre stati contrapposti quando invece hanno le stesse ferite, gli stessi meccanismi di sfruttamento, sono parti offese dal capitalismo. Ho ricominciato a camminare nei dintorni di casa grazie all’incontro di due persone a me carissime, guide Cai Sergio e Marinella che mi chiesero di fare la Barbiana Monte Sole e dal nulla, con loro, mi sentii pronta a farlo, anche se continuativamente, per giorni, non camminavo dalle vacanze in montagna con i miei da ragazzina. Sentivo un affidamento che non trovavo più in politica. Ho ricominciato a camminare un po’ per fuggire dai cantieri, un po’ per guardarli da altri punti. Camminare come metodo di osservazione, di inchiesta, come modalità adatta al nostro sentire umano per raccogliere le storie e anche per trovare un ritmo, uno stile nella scrittura proprio come lo si fa coi passi. In questi libri non racconto mai solo del camminare, ma tento di intrecciare più piani narrativi: storie di lavoro, di terre, di sponde. Nell’ultimo, il corpo territorio dialoga coi corpi dei morti delle stragi nazifasciste e dei migranti in mare, coi corpi dei camminatori, col mio corpo che ha subito un’operazione alla testa. Oltre all’affidarsi agli altri, al cammino di gruppo ma anche al personale sanitario che mi ha curato, ho ritrovato il piacere di fare le cose insieme. Protagonista è il corpo e l’ascolto: l’ascolto serve non solo a recepire una storia, ma anche a collocarci come corpi dentro un territorio, una comunità, una realtà.
Oggi viviamo in una società, quella dello spettacolo, dove il ruolo dell’intellettuale è diventato ormai quello dell’entertrainer, di imbonitore festivaliero. Quale è la tua postura invece?
Grazie a dieci anni di pallavolo ho una discreta postura. A parte gli scherzi, io ho esordito grazie a un racconto al Campiello Giovani. Senza quella circolare che pubblicizzava quel concorso e che passò dalla scuola pubblica in quinta superiore di un istituto tecnico commerciale, molto probabilmente il mio contesto familiare e di provincia non mi avrebbe avvicinato agevolmente al mondo editoriale. Non sono una contro i premi letterari o contro i festival se diventano occasioni per allargare sguardi, tessere relazioni fra chi ha interessi simili, provare a scardinare delle certezze, avere regole note e trasparenti, creare nuovi progetti. Grazie a molte di queste occasioni per me sono nati seri incontri di confronto, amicizie, legami di stima. Ho imparato molto persino dalle delusioni e ho compreso meglio ciò da cui voglio stare distante. Sicuramente vedo in crisi la figura dell’intellettuale, quella o quello che aspetti di leggere o ascoltare per sapere che ne pensa di un certo fenomeno su cui è davvero preparato e se non lo è fa ricerca raffinata, che ti solletica sotto il mento e ti spinge a volerne sapere di più. Penso spesso ad Alessandro Leogrande e quanto manca. Più che intrattenere vorrei chi disturba, chi si infila nelle contraddizioni, chi non teme di incrinare qualche potere incancrenito e se devo indicare una postura a schiena dritta senza sbraitare o ammiccare.
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