Come vivere insieme? La città esiste per rispondere a questa domanda, da sempre, fin da quando circa seimila anni fa sostituì il villaggio protourbano. Motore di quella trasformazione fu l’innovazione tecnologica in agricoltura che rese disponibile una eccedenza produttiva che venne gestita centralmente nel “tempio”, dando vita alla divisione del lavoro; l’eccedenza scambiata sui mercati forniva le risorse per realizzare i servizi e le infrastrutture necessarie ad organizzare la produzione ma anche a migliorare la qualità della vita dei suoi cittadini. All’origine della città c’è quindi un chiaro ed evidente vantaggio, non solo economico ma di qualità della vita e di benessere individuale.
Vivere insieme nella città vuol dire migliorare la qualità della nostra vita per avere qualcosa di più che la sussistenza. La città è diventata nel tempo lo scenario migliore per l’agire e condizione che, delle tre descritte da Hannah Arendt, è quella più propriamente umana e che per questo sta sopra alle altre due: il lavoro (homo laborans) e il fare (homo faber). Un vantaggio, quello di vivere in città, che proprio oggi che è divenuta la più diffusa forma di abitare il mondo, non sembra essere più così certo.
La città è messa in discussione con critiche sempre più diffuse e in modo ricorrente si insiste sulle sue crisi, fino ad affermare che dalla città bisogna difendersi e forse anche redimersi, cercando fuori da questa: in campagna, nei borghi, nei paesi o ancora nelle città medie.
Le città odierne hanno forme ben diverse da quelle che avevano alla fine della Seconda guerra mondiale, quando era ancora possibile separare la città e la campagna; in questo poco tempo è avvenuta una delle trasformazioni più rilevanti: la città ha delirato, tracimato oltre i confini, e ha ora la forma di un territorio abitato. Roma copre un territorio di circa 100 chilometri per 100 chilometri, Milano è uno dei tanti nodi di una rete urbana che si distende quasi senza soluzione di continuità su tutta la Pianura padana, tra Torino e Venezia. Non sono da meno Parigi con il Grand Paris o il core dell’Europa che da Bruxelles si distende fino a Rotterdam e da qui ad Amsterdam e così nelle Americhe o in Asia.
La città è il territorio e ha una trama a maglie larghe, il costruito è giustapposto all’agricolo come alle aree naturalistiche, il residenziale di fianco alla logistica, la città si presenta con un nuovo equilibrio geografico non solo tra centro e periferia (una dualità ormai saltata) ma tra città e natura, tra costruito e paesaggio. Redimersi dalla città ha significato anche ampliare il distanziamento sociale e stringere invece verso una socialità diversa, ibrida, che connette spazi fisici e spazi digitali in una reciprocità che non esclude ma aumenta il potenziale dell’uno e dell’altro.
Si è aperta di conseguenza una discussione sull’urbano, su come debba essere interpretato quello che eravamo abituati a chiamare urbano per assegnarlo solo a una parte, quella della città densa e costruita dando forma alle relazioni sociali in spazi e contesti densi e pensati. Se durante la pandemia si è diffuso un pensiero anti-urbano e si sono accentuati i dati di chi lasciava le città, è stato anche perché questo dibattito era presente da prima, la pandemia ha solo messo in evidenza quello di cui già si discuteva. Lasciare la città è in realtà una espressione solo in parte vera, nel senso che per lo più si lascia la città centrale per andare ad abitare nella città territorio lì dove è possibile dare forma ad un abitare che si ridefinisce a partire da un nuovo equilibrio con la natura, con la terra, con la geografia spaziale e con quella sociale.
La questione è allora prendere atto…
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L’autore: Professore di Urbanistica all’Università di Roma tre, Giovanni Caudo è presidente del Municipio III di Roma e promotore della lista civica Roma futura per le elezioni comunali di ottobre
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