Ora che il disastro è compiuto quali scenari geopolitici si aprono? E quali prospettive per le donne, le bambine, l'intera popolazione civile, gli operatori di organizzazioni umanitarie i traduttori, mediatori culturali e i loro familiari rimasti a migliaia senza protezione?

“La guerra è finita”. Così i portavoce delle milizie taliban stanno annunciando al mondo la nascita dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan dopo l’occupazione di Kabul, la chiusura degli spazi aerei e mentre la bandiera dei mullah sventola sul palazzo presidenziale. Il presidente Ghani, sostenuto da quelle che erano le potenze occupanti, odiato per la corruzione dilagante e per lo stato di totale prostrazione del Paese, è già fuggito in Tagikistan. Ufficialmente per evitare spargimenti di sangue, più realisticamente per evitare di fare la fine di Najibullah, ultimo presidente rimasto in carica dopo l’occupazione sovietica del 1979, torturato e ucciso dai taliban il 6 settembre del 1996, quando gli studenti coranici erano entrati a Kabul. Se, almeno dal 1979 la storia afghana è un immenso buco nero in cui in tanti hanno inflitto ferite atroci, quanto accaduto dopo il 1996 è qualcosa di difficilmente paragonabile in quanto ad atrocità commesse. I mujaheddin fondamentalisti, finanziati dagli Usa in chiave anti sovietica, dopo aver preso il potere e introdotto la sharia, commisero l’errore di ospitare quello che dopo l’11 settembre divenne il nemico pubblico numero 1, Osama Bin Laden.

Truppe statunitensi prima e Nato poi, invasero l’Afghanistan per “debellare il terrorismo” e “riportare la democrazia”. Al di là del fatto che 10 anni dopo Bin Laden venne ucciso in un’operazione antiterrorismo ad Abbottabad, in Pakistan, dove da tempo il capo di Al’Qaeda si era rifugiato. Ma riavvolgiamo il nastro.
Nell’ottobre 2001 le forze occidentali fanno cadere il regime talebano manu militari. Certo si arriverà anni dopo ad eleggere un parlamento col 25% di donne (in gran parte mogli o figlie dei signori della guerra) e certamente a Kabul almeno si tornano a vedere volti non coperti dal pesante burka imposto dai fondamentalisti. Ma il paese resta in perenne guerra civile. Le milizie dei diversi signori della guerra si combattono fra loro soprattutto per il controllo della produzione di oppio e per la creazione di impianti per raffinare il prodotto in eroina, la violenza imperversa soprattutto nelle province remote, i taliban continuano a controllare diverse aree del Paese.

E mentre si spendono cifre inaudite per esportare armi, sperimentare anche nuovi ordigni come la Moab (Mother Of All Bombs), che venne fatta esplodere nell’aprile del 2017 per distruggere “tunnel dell’Isis” provocando morti e ferite permanenti fra i civili, il paese non cessava di affondare. Con risultati assurdi che oggi permettono di essere meglio compresi. Pur avendo timore dei taliban, nelle zone da loro controllate regnava maggior sicurezza al punto che coloro che non erano riusciti a fuggire in Pakistan, Iran e -pochi -poi proseguire verso l’Europa, hanno a volte scelto di lasciare le proprie case e stabilirsi nelle “aree talebane” avendo meno diritti ma maggiore garanzia di vita. I governi che si sono succeduti nel paese hanno avuto come comune denominatore quello di incrementare la corruzione – gran parte delle risorse che arrivavano per cooperazione e sviluppo venivano spartite fra le famiglie vicine al presidente di turno o ai possibili alleati – la povertà, la tossicodipendenza. Per molti che restavano in Afghanistan c’erano due opportunità di lavoro: entrare in qualche milizia privata – gli stipendi dei soldati regolari erano bassi e spesso non arrivavano – o andare a lavorare nella raccolta dei papaveri da oppio e nelle raffinerie. Nel frattempo le milizie taliban si rafforzavano, divenivano vero e proprio potere parallelo al punto da poter pretendere di aprire un tavolo di negoziati con gli occupanti.

Con gli accordi di Doha, in Qatar, Usa, governo Ghani e taliban erano questi ultimi ad impugnare il coltello dalla parte del manico. In cambio di impegni vaghi e soprattutto a quello di pacificare realmente il paese, i taliban hanno ottenuto di fatto di ricreare l’emirato islamico, reintrodurre in maniera totale e priva di controllo la sharia, definire una fase di transizione verso un nuovo governo che invece non c’è stata. Una transizione, era chiaro da un anno, che non ci sarebbe stata.

Gli accordi di Doha si sono rapidamente impantanati mentre i prigionieri taliban venivano liberati, l’amministrazione Biden, seguendo le decisioni del suo predecessore, confermava il ritiro delle truppe Usa e Nato dal territorio afghano – i 900 italiani di stanza ad Herat sono da tempo a casa – e gli analisti davano per scontato che entro pochi mesi il potere sarebbe tornato nelle mani dei taliban. Ma, in parte grazie agli armamenti disponibili, agli accordi presi con molti signori della guerra, alle defezioni generali nell’esercito governativo, agli accordi diplomatici presi in maniera ufficiale o segreta con le potenze mondiali e regionali vicine (Russia, Cina, Turchia, Iran, Pakistan ), i fondamentalisti sono riusciti anche a realizzare una umiliazione simbolica degli Usa e dei suoi alleati.

Il ritiro definitivo era previsto per l’11 settembre, venti anni dopo le twin towers, Kabul è stata occupata, come quasi tutto il Paese, un mese prima. Abdul Ghani Baradar, uno dei capi della delegazione taliban, mujaheddin antisovietico durante l’invasione, vice del defunto mullah Omar, per anni detenuto in Pakistan, è tornato da trionfatore a Kabul dove potrebbe divenire il nuovo presidente. Ed è a Kabul anche il trentenne figlio del fondatore dei taliban, il mullah Omar, Mohammed Yaqoob che potrebbe rappresentare la sorpresa per il futuro. Considerato un “moderato” e benvisto in Usa, Pakistan e Arabia Saudita, è all’interno della gerarchia del gruppo ancora debole da dover ricorrere ad una collegialità nelle decisioni da prendere, che tenga conto anche delle diverse sensibilità.

Cosa c’è da aspettarsi per il futuro prossimo? Intanto, inevitabilmente, ci sarà – è già in atto – un aumento degli sfollati e di coloro che cercheranno con ogni mezzo di lasciare l’Afghanistan. Se alcuni paesi come Germania e Nuova Zelanda hanno almeno accettato di dare rifugio agli interpreti e ai collaboratori afghani delle truppe di occupazione, da altri Paesi pochi segnali in tal senso. Il contingente italiano ha usufruito di circa 800 interpreti e guide, con le loro famiglie si arriva a 3000 persone ma ad oggi nessuna prospettiva di protezione è stata avanzata. E se il governo albanese ha dichiarato di poter accettare una modesta quantità di rifugiati, se Olanda, Germania e Danimarca hanno almeno sospeso i rimpatri degli afghani a cui non veniva riconosciuta protezione umanitaria, il governo austriaco ha cinicamente dichiarato, crescendo nei consensi, che non solo non accetterà rifugiati ma continuerà a rimpatriare chi non ha diritto.

Quando i riflettori saranno, temiamo presto, lontani dallo scenario afghano, i primi a pagare nel nuovo regime, saranno proprio coloro che hanno lavorato per l’occupante. E così come i taliban non hanno affatto rispettato la promessa di non attaccare le città prima della fine dei negoziati è difficile immaginare che altre garanzie verranno rispettate.

La situazione delle donne, soprattutto delle single, che si vanno censendo nelle città “liberate” per dar loro un “marito”, di quelle che hanno studiato e sono riuscite ad esercitare una professione che le aveva rese indipendenti, è già duramente a rischio. Impossibile contattarle, hanno dovuto nascondere i computer e spegnere i cellulari perché una comunicazione con gli occidentali, in questi giorni, può costare la vita. I danni maggiori saranno subiti dalle bambine e dalle donne nelle aree rurali o nelle città in cui non godono di qualche alta protezione, in cui non risultano esponenti di rango di qualche famiglia potente. Per loro il futuro è segnato anche se dai primi segnali, le piccole ma combattive organizzazioni che hanno resistito in questi anni, non intendono arrendersi.

I Paesi responsabili di venti anni di una immorale, illegale, inutile guerra imperialista, dovrebbero assumersi la responsabilità di farsi carico di chi fugge o intende fuggire. L’Onu dovrebbe intervenire per mettere in salvo chi è a rischio anche solo perché appartiene ad una delle tante minoranze che compone il grande paese di 38 milioni di abitanti. I taliban, per ora, intendono riallacciare rapporti internazionali con chi non pretenda di intromettersi nella vita interna afghana. Dichiarano disponibilità verso le ong umanitarie, verso i progetti di cooperazione, verso ogni sostegno che possa consentire al Paese di uscire dalla povertà assoluta in cui è ormai da decenni. Questo a condizione che chi entra in Afghanistan rispetti le interpretazioni taliban delle leggi coraniche.

Un altro Paese, dopo la Turchia e la Libia ha oggi un formidabile potere di ricatto verso l’Europa. Ai prossimi tavoli il nuovo Emirato potrà dire: “O soldi o rifugiati, e i diritti umani da noi sono cose che non vi riguardano”. Può darsi che alcuni Paesi non riconoscano l’Emirato islamico dell’Afghanistan, ma difficilmente sentiremo le grandi potenze proporre sanzioni come invece viene fatto verso paesi (cfr Cuba o Venezuela) che mettono in discussione il modello di sviluppo dominante. Ci sono diritti umani di serie A e altri di serie B è cosa nota. Altro tema spinoso che risulta arma potente in mano ai nuovi dominatori di Kabul è l’immensa produzione di oppio e di eroina di cui il Paese dispone. Si tratta, l’abbiamo già scritto anche in passato, di un mercato che cresce in continuazione, che non ha mai visto crisi, che peraltro ha portato soprattutto molti giovani afgani in condizioni di tossicodipendenza. Le potenze che hanno occupato l’Afghanistan, Usa in primis, non hanno mai nemmeno cercato di stroncare tale produzione proponendo colture alternative e magari in grado di garantire sostentamento alla popolazione. È un mercato che fa gola e che, insieme ai minerali preziosi, di cui è ricco il territorio afghano, determinerà alleanze, accordi commerciali, investimenti. E sono molti i Paesi interessati a non perdere questa occasione, voltandosi dall’altra parte quando si parla di diritti e democrazia. Forse perché quest’ultima la si sa esportare solo con le bombe.

Da ultimo, non per importanza, la vicenda afghana, ma vale anche per altri contesti, pone una domanda. Partendo dal presupposto che il multipolarismo sia una prospettiva migliore dell’unipolarismo Usa o del bipolarismo da “guerra fredda”, non c’è il serio rischio che le diverse potenze oggi abbiano come unica prospettiva quella di “dividersi le torte”? L’Europa, fuori dai giochi in tale contesto, è quella che complessivamente ha assunto la posizione peggiore. In Italia c’è chi invoca la necessità di riprendere la “guerra al terrore” e riscopre all’improvviso i diritti delle donne afghane. Meglio stare con chi questi diritti non li ha mai dimenticati come il Cisda (Coordinamento italiano di sostegno alle donne afghane). Riprendiamo quindi il loro appello: “Ecco sono queste forze come Rawa (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan), Hawca (Humanitarian Assistance for Women and Children of Afghanistan), Opawc (Organization of Promoting Afghan Women’s Capabilities), Hambastagi unico partito democratico, che il Cisda cerca di sostenere dall’Italia con un lavoro di informazione e di costruzione di relazioni, che pochi fanno. Cerchiamo di dare voce a chi voce non ha. Siamo attive dalla fine degli anni 90 anche andando ogni anno in delegazione a Kabul per l’8 marzo, attivando progetti che partono dalle loro necessità e in questo momento abbiamo lanciato una raccolta fondi a favore degli sfollati afghani, è li che le nostre donne stanno intervenendo. Chi volesse contribuire può farlo con un bonifico sul conto Cisda: Banca Popolare Etica IBAN IT64U0501801600000000113666, causale: “Donazione liberale emergenza Afghanistan”.

Per chi volesse conoscere la loro attività: www.cisda.it

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