Non solo Alberto. Ma anche il designer Diego e l’architetto Bruno (fratelli del grande artista e scultore). Il padre Giovanni ed il cugino Augusto aprirono loro la strada sperimentando le novità del tempo. La Fondazione Maeght racconta le loro diverse personalità con una mostra

Alberto Giacometti non solo artista introverso, ascetico e solitario come le cronache d’arte ci hanno raccontato. La mostra Les Giacometti: Une famille de créateurs aperta fino al 15 novembre alla Fondazione Maeght di Saint-Paul de Vence ce ne restituisce l’intelligenza concreta, la generosità e il senso poetico della vita rileggendo la genesi della sua opera, radicalmente originale e potente, all’interno di una ricca trama di affetti e di amori a cominciare dalla relazione con Annette Arm, che fu anche sua modella e collaboratrice. Dopo una serie di legami tormentati nel 1946 Giacometti conobbe questa ragazza ginevrina, di 22 anni più giovane, che per lui lasciò il lavoro alla Croce Rossa accettando di trasferirsi a Parigi nella casa-studio in cui lui viveva dal 1926: ventiquattro metri quadrati a Montparnasse, poco più che una stanza soppalcata, con pavimento di terra battuta e senza acqua corrente, in cui lui continuò a lavorare anche quando raggiunse la notorietà. Proprio in quello studio fu realizzato l’intensissimo ritratto di Annette che è uno dei fuochi emotivi dell’esposizione alla Fondazione Maeght. In mostra alla Fondazione Maeght compaiono anche altri ritratti intimi, ma soprattutto tante sue esili figure scultoree punteggiano gli spazi con una forte, vibrante, presenza. È stato spesso rilevato che sono immagini isolate, di alienazione, che esprimono il sentire di una generazione traumatizzata dalla guerra.

Ma queste figure allungate, dotate di grandi piedi che a volte si fanno piedistallo, per quanto bloccate, appaiono come in movimento. Trasmettono una ricerca di essenzialità, un’esigenza di assoluta concentrazione su ciò che caratterizza l’essere umano più profondamente.

La mostra Les Giacometti curata dal fotografo e re

gista Peter Knapp come accennavamo mette in luce anche aspetti meno noti della biografia di Alberto Giacometti (1901-1966), come ad esempio il rapporto dialettico, di separazione e tuttavia di scambio – attraverso le lettere – che lo legava alla madre Annetta e al padre Giovanni, apprezzato pittore nella Svizzera di fine Ottocento, ma anche con il cugino Augusto, audace colorista, di cui nelle prime sale si possono vedere icastici ritratti post impressionisti, quasi Fauve per la forza dei colori.

Profondissimo e costante, invece fu il rapporto fra Alberto Giacometti e i due fratelli minori: Diego, che gli fu sempre accanto anche sul piano professionale, e il più piccolo Bruno che, dopo inizi da violinista, scelse la strada dell’architettura diventando un longevo e apprezzato modernista (è scomparso a più di cento anni nel 2012).

Diego, in particolare ebbe un ruolo di primo piano nella vita di Alberto: era il suo assistente di studio, il suo solido supporto psicologico e come Annette si prestò a fargli da modello per ritratti, in cui, come accennavamo, la fisionomia conta ben poco perché quel che interessava al pittore era cercare di cogliere e di rappresentare l’universale umano.

Quel che pochi ricordano di Diego è che non fu solo una “spalla”, ma anche un raffinato designer di arredi interpretando liberamente schizzi del fratello, realizzando mobili e  sculture per abitazioni e Caffè: specchi, tavoli, lampade vagamente liberty, arricchite di suggestioni greche, egizie, africane, oceaniche, pezzi unici di cui la Fondazione Maeght presenta una interessante scelta. Nei momenti più duri la vendita di quelle creazioni permise ai due fratelli di tirare avanti. Fatto inaccettabile per il sacerdote del Surrealismo André Breton che nel 1934 espulse Alberto Giacometti dal movimento additandolo come traditore della causa, proprio perché per campare, realizzava con Diego oggetti d’arredo «per i ricchi» e (soprattutto perché voleva tornare a lavorare dal vero).

In realtà non si trattava solo di opere “commerciali” tanto che anche in quegli oggetti progettati da Alberto e realizzati da Diego si può intravedere il filo di ricerca che aveva portato Alberto nel 1920 ad avvicinarsi ai cubisti e successivamente a costeggiare l’ambito surrealista.

Ma questo è solo uno dei molteplici percorsi che propone questa mostra nata con l’obiettivo di raccontare la personalità e il talento di Alberto Giacometti ricostruendo il rapporto con gli intellettuali e gli artisti che ebbe attorno, non solo da adulto, ma fin dall’infanzia, forse non idilliaca come la descriveva lui ma certamente ricca di stimoli e di letture.

L’architetto Olivier Gagnère mette in scena queste pagine biografiche in un susseguirsi di sale rotonde con soffitti oblò che prendono luce dal cielo. In questa danza circolare si staglia il talento assoluto di Alberto Giacometti ma va in scena anche la storia dei Giacometti che, in vario modo e con diversissima statura, dallo sperduto paese di Borgonovo di Stampa (canton Grigioni) seppero intervenire da protagonisti nel processo di rinnovamento dei linguaggi dell’arte moderna.

Immersa nel verde e circondata da un parco di opere d’arte di Mirò, Calder e altri artisti del Novecento la Fondation Maeght, (prima fondazione d’arte indipendente in Francia progettata nel 1964 dall’architetto Josep Lluís Sert) di quella saga familiare ne è il palcoscenico ideale.

A pochi chilometri da Nizza e dai più affollati luoghi di villeggiatura della Costa Azzurra, dopo una salita a tornanti, appare maestosa, totalmente avvolta nel silenzio. E immerso nel silenzio del paesaggio svizzero, fin da giovanissimo, Giacometti realizzava schizzi ispirati ai libri d’arte del padre, disegnando sopra o a margine delle immagini a stampa. Già in quelle prime prove c’è quella particolare attenzione alla fusione di antico e moderno e di culture diverse che lo accompagnò per tutta la vita. Il padre Giovanni Giacometti (1868-1933), come si può vedere dalle opere in mostra alla Fondazione era un seguace di Hodler e Segantini, ma anche un profondo conoscitore del simbolismo dell’impressionismo, e seppe cogliere la novità del movimento Die Brücke a cui poi prese parte. Più innovativo di lui sul piano del colore fu suo cugino Augusto Giacometti (1877-1947), attento a tutte le novità che gli ambienti artistici e intellettuali più all’avanguardia avevano da offrire. Attraverso i ritratti che Giovanni Giacometti dedicò ai figli – che incontriamo all’inizio del percorso espositivo – si intuisce qualcosa di più dell’infanzia e della gioventù di Alberto Giacometti, cresciuto tra la grande casa di famiglia, traboccante di libri di letteratura, filosofia e arte, incastonata sui monti della Val Bregaglia. «Non potrei immaginare una giovinezza e un’infanzia più felici delle mie» diceva Giacometti, anche se già da piccolo appariva tormentato e se ne stava tutto il tempo chiuso in casa a disegnare, come riporta la biografia Alberto Giacometti della direttrice della Fondazione Giacometti Catherine Grenier (in Italia pubblicata da Johan&Levi). Uscito un paio di anni fa il lavoro di Grenier permette di entrare nella fucina di Giacometti, ripercorrendone i tormenti e le nevrosi che condizionarono il suo lavoro, facendogli vivere lunghe stasi. Come ricostruisce la studiosa in base a testimoniane di amici e collaboratori dell’artista, egli era capace di lavorare per notti intere a una scultura per poi distruggerla al risveglio. Per poi ricominciare daccapo. Non di rado tornava sulle sculture decine di volte, riducendole di dimensione fino a che «diventavano così minuscole che con un ultimo colpo di temperino spesso scomparivano per sempre nella polvere», come scrisse nel 1950 il gallerista Pierre Matisse, che ne aveva fatto conoscere l’opera Oltreoceano.


L’articolo prosegue su Left del 27 agosto – 2 settembre 2021

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