È arrivato il momento di rilanciare una nuova critica marxista, l'unico strumento efficace per opporsi ad imperialismo e sfruttamento, ed arginare la crisi climatica

Quello che sta accadendo in Afghanistan è una tragedia indiscutibile. Ma limitarsi a occuparsi degli aspetti umanitari (urgenti e necessari, ma che si riproporranno) ci farebbe insistere nell’errore di considerare questi avvenimenti come circoscritti a un’area del mondo, quando invece rappresentano un episodio, drammatico, ma sempre più evidente, di un più vasto conflitto per il controllo “geopolitico” di quei territori, delle ricchezze minerali – pensiamo alle terre rare sempre più necessarie – delle rotte del gas ecc., e al contempo per l’affermazione definitiva di un modello. Tutto ciò connesso ad un lungo processo di ristrutturazione capitalistica.

Il Capitale, nella sua secolare espansione, ha da sempre avuto due sostanziali opzioni: la leva militare e quella economica. La prima da usare in particolare nei territori a scarso sviluppo, economico, sociale e civile (pensiamo alle guerre in Iraq, in Iran, alle cosiddette “primavere arabe”, foraggiate dal “socialista Blair” e dalla Francia così come i talebani lo sono stati dagli Usa in funzione antisovietica), la seconda impiegata nei Paesi sviluppati (cos’altro è stata la crisi greca di qualche estate fa se non una guerra “condotta con altri mezzi” cui la comunità politica mondiale, ha assistito inerme se non acquiescente alle volontà delle Banche centrali, Fmi ecc.?).

Quello che emerge tuttavia in maniera sempre più evidente in questo scorcio di secolo, e a partire almeno dalla fine dell’URSS, è che a contrapporsi a tali processi sono rimasti in campo la nuova Russia di Putin e la Cina. Entrambe tuttavia con un approccio parimenti di tipo “imperialistico” e non sostenuto da una diversa visione di mondo, un’ideologia. Il conflitto si è sempre più spogliato dei suoi caratteri ideologici (Capitalismo contro Comunismo) per concentrarsi all’essenza, questa sì ideologica, di espansione e dominio sui territori, sui beni, sui popoli, sui mercati, sulle ricchezze. L’assenza di visioni ideologiche alternative ha prodotto la fine dei grandi movimenti di massa che pure avevano caratterizzato il mondo in tutte le sue trasformazioni e in tutte le “crisi” che attraversava. Dalle grandi mobilitazioni contro la guerra in Vietnam, alle lotte per il disarmo e contro la corsa agli armamenti, dal No all’atomica alle ribellioni contro i golpe realizzati o tentati. Quello che possiamo a ragione osservare è l’assenza totale, nel mondo, di una sinistra che provi ad analizzare il mondo e a elaborare risposte, più avanzate. Eppure, fino alla caduta del muro di Berlino, quelle mobilitazioni, con alterne fortune, sono state in grado di intervenire e modificare il corso degli avvenimenti: dalla Guerra fredda e la contrapposizione in blocchi (equilibrio del terrore) alla distensione, dal ruolo dei Paesi non allineati all’affrancamento dall’Urss come Paese guida. E tutto ciò era frutto di una continua elaborazione, culturale, politica, filosofica e ideologica, di una sinistra che non rinunciava al proprio ruolo di organizzatore di idee e pensiero critico, contro il capitalismo come fine ultimo dell’umanità, e nella ricerca di vie nuove e originali per il socialismo. E ciò anche in Italia grazie alla forza e al prestigio internazionale del Pci.

Invece, dalla caduta del muro si è assistito, con diverse modalità e tempi, non solo ad un allontanamento definitivo di un modello, quello sovietico, inadatto ai tempi, stimolo per una analisi del mondo e un percorso originale, ma anche ad una accettazione sostanziale del modello capitalistico cui, al più, partecipare con una più equa distribuzione delle ricchezze. Come se i danni del capitalismo, parimenti al superamento del socialismo sovietico, fossero scomparsi o superabili in sé stesso. Il Capitale sembra abbia ottenuto un sostanziale via libera, dal punto di vista ideologico, come unica prospettiva dell’umanità. Invece il capitalismo procede, come sempre, ad una sua ristrutturazione senza mai venir meno alle sue caratteristiche “fondanti”: mercato, impresa e profitto quali uniche leve di progresso. Bisogna con onestà riconoscere che, con tutti i suoi limiti, improvvisazioni, scarse basi teoriche di massa, solo il movimento No-global aveva percepito, e avvisato, circa i pericoli delle nuove ristrutturazioni del capitale galoppante verso mercati globali.

E bisogna con onestà riconoscere che a fronte di quelle tematiche, mentre la destra si preoccupava di contrastarle sul piano poliziesco, la sinistra si limitava alla denuncia per le violenze, ma senza un minimo di riflessione e di pensiero critico su quei temi, se non in pochi e isolati intellettuali ed economisti. Il mondo ha marciato sempre più velocemente verso lo sfruttamento sempre più massiccio del pianeta e lo strapotere del capitalismo finanziario ha assunto caratteri sempre più sovranazionali: un tempo aveva bisogno degli Stati per “proteggere” la propria espansione attraverso le leggi, e quindi se pure in parte venendone limitato, oggi è esso a dettare condizioni agli Stati, e quindi ne può fare a meno. La veloce rivoluzione informatica non ha prodotto migliori condizioni di vita, ma è servita ad aumentare la “produttività”, riducendo al contempo la centralità della fabbrica, come luogo privilegiato di produzione delle merci perché ha sempre meno bisogno di manodopera, ottenendo un duplice risultato: l’aumento dei profitti e la atomizzazione dell’operaio-manodopera, la superata classe operaia, dispersa in attività esterne alla fabbrica, in piccoli centri di lavoro, in un diffuso indotto, dove si è più facilmente controllabili e meno sindacalizzati, quindi con meno peso e meno potere contrattuale. Non è un caso che prevalga sempre più il lavoro precario, figure quali i drivers, che altro non sono però che proletariato del nuovo millennio, o gli invisibili dei campi di raccolta, che altro non sono che nuovi schiavi, con meno possibilità di organizzarsi e riconoscersi quale “classe”.

Niente di nuovo perciò dal punto di vista del Capitale. Il nuovo è appunto l’assenza di una critica a questo modello di sviluppo. Allora è necessario un nuovo conflitto che parta dal tipo di sviluppo, ma per immaginare una società diversa. Prendiamo l’ambientalismo, di cui oggi tutti si dichiarano paladini a partire dai vari Pnrr: il Capitale saprà volgerlo a suo vantaggio: non è favorendo l’auto elettrica che si salva il pianeta (non solo almeno): dove reperire le necessarie materie prime, a che prezzi, sociali, economici e umani, dove smaltire? E l’energia eolica o solare? Si traduce perlopiù in deturpazione di interi territori e consumo di suolo. E le misure contro il precariato? Giusti i sussidi, giusto il Reddito di cittadinanza (per rimanere in Italia), già meglio la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Ma simili strumenti sono già presenti in gran parte del mondo occidentale, eppure quegli Stati non per questo risultano modelli di società non più capitaliste. Il punto è che questi strumenti intervengono a valle dei meccanismi intrinsechi al modello di sviluppo capitalistico, e mai a monte, perché non ribaltano i meccanismi di produzione del lavoro, di controllo e sviluppo delle capacità e delle ricchezze, cioè volti a sostituire “mercato-impresa-profitto”, realizzando una diversa distribuzione del lavoro e delle risorse, dei rapporti tra gli esseri umani ecc.

Se quanto espresso è vero, magari in minima parte – interconnessione, globalismo, neoimperialismo, dominio della finanza sovranazionale – non si avverte la necessità di riprendere da parte delle sinistre, non dico una nuova improponibile internazionale, ma il filo interrotto di un’analisi critica avanzata della società ed un internazionalismo di pensiero ed elaborazione? Di rilanciare una nuova critica marxista? E una qualche forma di “confronto” su scala planetaria? Perché da un lato “l’elemento fondante del marxismo non è solo il fatto di essere una critica della società capitalistica e l’affermazione di una società diversa” (cit. Il sarto di Ulm, Lucio Magri), ma di presentarsi come “un movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti”. E qui infine riaffiora l’urgenza, in Italia, di riproporre percorsi di unità della sinistra, sulla base delle esperienze e delle necessità storiche, e non su improponibili divisioni dei soggetti che dovrebbero farsi carico di questo sforzo elaborativo, e che si traducono invece in accettazione passiva appunto dello stato di cose la cui massima aspirazione è la buona amministrazione dell’esistente. Ma chi ha oggi l’autorevolezza, e la voglia, di iniziare questo percorso?

*L’autore:Lionello Fittante è tra i promotori degli Autoconvocati di Leu, ed ex componente del Comitato nazionale èViva!

 

 

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