I talebani a Roma. Saldi di fine stagione. Così titolava il Frankfurter Allgemeine Zeitung nel 2002 denunciando la svendita del patrimonio artistico italiano, ridotto dai suoi governanti a mero bene economico. L’archeologo e storico dell’arte Salvatore Settis lo riportava in un suo coraggioso libro dal titolo Italia s.p.a. (Einaudi) che ci è tornato in mente in vista della conferenza che il professore terrà il 12 settembre alle 19 a Carrara al festival Con-vivere dedicata al tema dell’incuria, e che avremo il piacere e l’onore di introdurre.
Professor Settis quanti danni hanno fatto in questi venti anni i talebani nostrani?
Allora il tema era la trasformazione del patrimonio demaniale dello Stato in una società dello Stato, la Patrimonio S.p.a. che poteva privatizzare tutto e dunque si parlava della riduzione del patrimonio a mero valore economico. A rendere possibile tutto ciò era la legge Tremonti. Lui stesso anni dopo ha dovuto riconoscere che era stata un errore. Quella legge fu ritirata ma la privatizzazione è continuata in varie altre forme. Si è imposto in Italia – e un po’ in tutto il mondo – il pregiudizio secondo cui se un edificio storico, il Pantheon o il quadro di Raffaello, valgono qualcosa è in termini economici che vanno calcolati. Si continua però a combattere e io sono solo uno dei tanti che lo fa per affermare il valore immateriale delle opere d’arte, della letteratura, del musica, del teatro, del cinema, che va molto al di là del loro valore materiale.
Questo è uno scontro che c’è sempre stato, ma nel nostro tempo è al calor bianco perché ad ogni crisi economica c’è qualcuno che dice “vendiamo il Partenone, vendiamo il Colosseo, vendiamo questo o quell’altro”. Che quella legge sia stata ritirata da parte dello Stato e dalla parte dello stesso ministro Tremonti che l’aveva proposta è stato un buon segno. Vuol dire che queste battaglie a qualcosa servono. A mio avviso non si deve mai cessare di combattere.
E oggi dove vede i segni dell’incuria nella responsabilità dei politici?
Io vedo una responsabilità notevole della politica in generale e dei governi degli ultimi anni nell’avere ridotto in modo molto significativo i ranghi del nostro personale di tutela, perché è vero che la nostra Costituzione dice all’articolo 9 che la Repubblica tutela il patrimonio artistico della nazione, ma la Repubblica non può tutelare proprio nulla se non ci sono degli esperti che badano a questa cosa. Sarebbe come dire in questo ospedale vi cureremmo ma non ci sono medici. Di questa riduzione del personale sono colpevoli politici di ogni segno.
Come valuta l’operato del ministro Franceschini sotto questo riguardo?
L’attuale ministro Franceschini è stato in realtà l’unico negli ultimi anni ad essere riuscito a immettere nuove unità nel ministero dei Beni culturali oggi ministero della Cultura. Lui stesso ha dichiarato che oggi ce ne vorrebbero altri 6mila. Ma questi 6mila non arrivano, mentre i pericoli sul paesaggio e sull’ambiente crescono ogni giorno il numero delle persone che dovrebbero occuparsene cala, perché gli attuali funzionari vanno in pensione. Il ministro ha anche spostato un numero considerevole di funzionari dando la priorità ai musei.
Questo è giusto o sbagliato?
Potrebbe essere anche stato giusto se fossero stati sostituiti da quelle seimila persone che mancano. Occorrerebbe una campagna di assunzioni molto importante e tanto più perché il numero dei disoccupati fra i laureati già addottorati è molto superiore ai seimila. Ci sono moltissime persone che hanno una laurea in storia dell’arte o in archeologia che continuano a lavorare in questo campo scientificamente ma che si devono accontentare di fare il controllore ferroviario o l’impiegato postale. Se trovano una supplenza di due mesi è già tanto. Questa è una situazione drammatica di cui io credo troppo pochi italiani si rendano conto. Ma il punto è che se ne dovrebbero rendere conto i politici poiché è il loro mestiere.
Le date delle amministrative di ottobre si avvicinano ma nelle campagne elettorali si fatica a trovare punti che riguardino la cultura e il patrimonio di arte. Perché la cultura affrontata con competenza non è fra i primi pensieri di chi si candida a governare le città?
Questo dimenticarsi della cultura e del patrimonio è una solida tradizione della politica italiana di ogni colore e segno. È successo regolarmente a livello nazionale in tutte le ultime elezioni e sta succedendo nelle amministrative. Non sono affatto sorpreso da questo.
Lei è intervenuto su La Stampa commentando criticamente la proposta di Calenda di un museo unico per Roma. Come si colloca in questo quadro?
Va a suo merito che abbia almeno pensato a un tema culturale. A suo demerito va il fatto che i dati che offre e la proposta che fa sono completamente fuori registro. Nulla di quello che dice è minimamente attuabile. Allora io mi chiedo perché, è mai possibile che questi nostri politici anche quando affrontano questi temi lo facciano senza ragionarci abbastanza e senza rivolgersi a esperti che possano evitare gli errori più clamorosi? Questo è un pessimo segno e si lega a ciò che dicevamo prima. Ovvero al fatto che il nostro patrimonio viene considerato solo nei valori economici e non in quei valori culturali che richiedono invece una visione lungimirante. Il patrimonio non è un peso, una palla al piede che viene dal passato, ma è un “conto in banca” per costruire il futuro se proprio vogliamo usare una metafora economica.
L’Italia che per prima ha costituzionalizzato la tutela ora- come molti altri Paesi – deve affrontare problemi nuovi, come eventi meteorologici avversi e improvvisi. Come saldare questi due fronti, come fermare il climate change e mettere in sicurezza il patrimonio? I giovani dei Fridays for future da tempo hanno lanciato l’allarme. Nella politica vede sufficiente attenzione a questa emergenza?
Purtroppo vedo una attenzione del tutto insufficiente, basti pensare alle dichiarazioni ripetute del nostro ministro per la transizione ecologica Roberto Cingolani e dei suoi collaboratori: sono giustamente molto preoccupati dei cambiamenti climatici, però quando qualcuno gli dice che le pale eoliche, le distese di pannelli solari non devono distruggere il paesaggio, non devono distruggere l’agricoltura, che non si possono trasformare preziose distese di olivi nelle Marche o in Puglia in enormi distese di pannelli solari, si innervosiscono. Purtroppo c’è anche qualche ecologista che li accompagna e li aiuta in questo dicendo che l’emergenza climatica è così grande che i valori del paesaggio passano in secondo piano. Invece io credo che sia obbligatorio, è anche la Costituzione che ci obbliga a farlo. È obbligatorio cercare di creare delle priorità sulla base della tutela del paesaggio e anche della tutela dell’ambiente e del clima. Però bisogna conciliare tutte queste cose. Non vedo nell’attuale governo nessuna traccia di un tentativo non di mediare, ma di conciliare queste cose.
Cosa si potrebbe fare concretamente?
Per dirne soltanto una basterebbe promuovere anche con incentivi economici l’uso di tegole speciali che assomigliano molto alle tegole storiche ma che possono anche fungere da captatori di energia solare. Sono un sostituto dei pannelli solari che si dovrebbero mettere anche sui tetti delle case senza devastare il paesaggio. Più in generale se siamo così preoccupati dell’emergenza climatica perché non promuoviamo continue ricerche? Non siamo affatto ai primi posti nel mondo fra quelli che fanno ricerca in questo campo.
Secondo i climatologi potrebbe accadere che nel 2050 Venezia sia sommersa e intanto non studiamo soluzioni?
Quanto al caso di Venezia io non direi che potrebbe essere sommersa nel 2050. Sarà sommersa, purtroppo. Non lo sarà del tutto, ma ci sarà un certo livello di sommersione. Non solo a Venezia. Anche a Pisa che è la città in cui vivo. Non possiamo ignorare che fra alcuni decenni accadrà questo. Non possiamo starcene con le mani in mano. Dovremmo fare molto di più invece di ricorrere alla retorica, come fa Cingolani, immaginando che nuove forme di reattori nucleari possano risolvere tutti i nostri problemi. Io francamente non me ne intendo e non ho una opinione scientifica ma dubito assai che quella sia la strada.
Nel suo nuovo affascinante libro Incursioni (Feltrinelli) che getta uno sguardo ampio sull’arte contemporanea, lei dedica un capitolo a Mimmo Jodice, maestro della fotografia anche nel raccontare il fascino delle rovine. Quelle prodotte dal tempo continuano a produrre senso e emozioni. Sono cosa ben diversa dall’incuria di cui parlavamo prima.
Le rovine hanno avuto un ruolo importante nella storia culturale dell’Europa e in particolare dell’Italia. Roma è il più grande campo di rovine dell’Occidente europeo. Hanno avuto una funzione molto interessante. Le rovine di Roma sono state il prodotto della crisi e poi della caduta dell’impero romano. Con il calo drastico della popolazione gli edifici venivano abbandonati, cadevano in rovina, venivano usati come cava di materiali ecc. Però da un certo punto in poi queste rovine sono servite come monito di ciò che era accaduto nel passato, ma errano anche il ricordo di una bellezza che era stata in parte distrutta e che in parte sopravviveva. Sono state un lievito per il futuro. Il momento in cui questo è accaduto si chiama Rinascimento ed è l’alba di quella età moderna nella quale sono successe tante cose sul piano culturale, artistico. Dunque le rovine possono essere anche il lievito di un mondo migliore di quello in cui viviamo. Anche negli altri saggi del mio libro scrivo che lo studio e le emozioni davanti all’arte del passato, di quello recente o di quello più remoto, devono essere un momento della nostra vita attuale per costruire il nostro futuro. Non sono solo uno sguardo retrospettivo, c’è una simmetria perfetta fra lo sguardo all’indietro nella storia e lo sguardo in avanti verso il futuro delle nuove generazioni. Anzi io direi anche che non può costruire il futuro chi pretende di ignorare o addirittura di distruggere il passato.
Abbiamo parlato di talebani all’inizio, vorrei concludere con un suo pensiero per l’Afghanistan e per il suo millenario patrimonio artistico anche sincretico di incontro di culture diverse, che però è stato distrutto sistematicamente prima dai sovietici poi dagli american fino ad essere minacciato di nuovo oggi dai talebani che hanno proibito perfino la musica. I fondamentalisti sono sempre un rischio per il patrimonio ma lo sono state anche le invasioni occidentali?
Il patrimonio artistico dell’Afghanistan è di primissimo ordine. Non so quanti italiani sappiano che riguarda anche noi. L’arte del Gandhāra si sviluppò in un pezzo dell’attuale Afghanistan, occupato da regni indo-greci dopo la grandiosa spedizione di Alessandro Magno. C’erano re macedoni che regnavano su popolazioni non greche, producevano un’arte che era intrisa di arte greco-romana. C’erano straordinari rilievi che rappresentano la vita di Buddha con lo stesso linguaggio che vediamo, per fare un esempio, sulla colonna Traiana a Roma. Parliamo di un patrimonio che è molto celebrato, dai musei del Giappone al British Museum di Londra, ma anche in collezioni italiane. Distruggere un patrimonio così prezioso, di un Paese come è questo, è di eccezionale gravità. temiamo la distruzione attiva dei talebani che addirittura la teorizzano con il preteso divieto delle immagini del Corano, che non trova riscontro in altre letture.
Non tutto l’Islam è aniconico e tanto meno iconoclasta, come sappiamo
Nei grandi Paesi di religione islamica le immagini non sono affatto bandite, basta pensare all’Iran. Va detto però che accanto alla distruzione attiva dei talebani c’è stata anche la distruzione passiva dell’esercito nordamericano. Non si sono messi a distruggere le opere, non hanno commesso un crimine pari a quello di distruggere i Buddha di Bamyan, però hanno lasciato che accadessero traffici, hanno permesso che fossero smembrate intere collezioni, hanno protetto ben poco. Notiamo quanta differenza c’è con la cultura americana della seconda guerra mondiale quando gli americani via via che occupavano l’Italia si preoccupavano subito di proteggere le opere d’arte, i musei. Questo ci dice immediatamente della decadenza della cultura americana nelle sue aspirazioni universalistiche, che gli Usa stanno abbandonando gradualmente. È sotto gli occhi di tutti la decadenza della cultura Usa degli ultimi vent’anni. È colpa di Trump ma non diamo tutta la colpa a lui. È responsabilità anche di molti altri. Evidentemente gli intellettuali americani che combattono contro questo degrado sono moltissimi e di primissimo ordine, ma in questo momento sono ancora una minoranza.
L’appuntamento: L’archeologo, storico dell’arte e accademico dei Lincei Salvatore Settis interviene il 12 settembre al Festival Con-vivere a Carrara (Corso Rosselli, ore 19) con una conferenza dedicata al tema dell’incuria
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