Mentre le lezioni stanno per iniziare, tra le diseguaglianze acuite dalla pandemia e l’incognita Dad, il linguista Luca Serianni riflette su come innovare l’insegnamento. A partire dall’italiano, «con un’apertura ad altri ambiti, non solo a quello letterario»

+++ Aggiornamento del 21 luglio 2022 +++
Luca Serianni ci ha lasciato. Desideriamo ricordarlo riproponendo in versione integrale questa intervista di Pierluigi Barberio, dove il linguista e filologo riflette su come innovare l’insegnamento in una scuola in cui le disuguaglianze sono aumentate anche a causa della pandemia

«Da linguista ho sempre sentito l’esigenza dell’impegno civile», mi dice Luca Serianni. In una calda giornata di fine estate il professore mi accoglie con la solita cordialità e pacatezza nello studio di casa sua, e subito iniziamo a parlare di scuola, di Costituzione, di ius culturae e di tanto altro.

Ricordo ancora le belle parole di congedo da La Sapienza di Roma rivolte ai suoi studenti: «Sapete che cosa rappresentate per me? Immagino che non lo sappiate. Voi rappresentate lo Stato». Professore le manca l’università?
Sì, in quell’occasione citai anche l’articolo 52 della Costituzione con riferimento al lavoro che i funzionari dello Stato a qualunque livello sono tenuti a svolgere con disciplina e onore. L’università mi manca perché l’insegnamento mi è sempre piaciuto molto, ma ero preparato; a una certa età è normale lasciare. Mi è mancato in generale il contatto con gli studenti ma anche con gli insegnanti durante la fase della pandemia perché non è assolutamente la stessa cosa fare lezioni e conferenze a distanza e farle in presenza.

A proposito di pandemia, a detta di molti questo periodo ha messo a nudo le fragilità del nostro sistema educativo e le disuguaglianze sono aumentate, anche a scuola. È un momento obiettivamente difficile.
Sono fragilità ben note. C’è una fascia di studenti di per sé più vulnerabili, sono ragazzi di estrazione socioculturale svantaggiata o straniera, e sono loro che hanno sofferto di più. Sono stati penalizzati anche dal fatto che a scuola non ci fossero computer personale a disposizione di studentesse e studenti, Perlopiù a casa hanno dovuto condividerlo con altre persone della famiglia in una stanza comune. La didattica a distanza può funzionare anche molto bene per trasmettere determinati contenuti, in particolare quanto è legato a verifiche fondate sul meccanismo del test, che può essere somministrato bene anche a distanza. Tuttavia, viene meno un aspetto fondamentale dell’insegnamento: il contatto in presenza. Qualunque insegnante di qualunque materia modula il suo discorso sulla base della reazione degli ascoltatori. Se viene meno questo, ad esempio quando la videocamera è oscurata, l’insegnamento in quanto tale ne soffre. E ne soffre anzitutto l’esigenza della socialità e del confronto in classe che è fondamentale. Non a caso, l’idea che ormai si debba tornare alle lezioni in presenza, in sicurezza, è generale. Tra l’altro, tutti eravamo impreparati a questa modalità, e quindi in alcuni casi insegnare a distanza ha significato fare una normale lezione come accadeva in classe. Così la Dad non può funzionare.

A ogni pubblicazione del rapporto Invalsi si scatena puntualmente una discussione sui risultati delle prove e sul livello di preparazione, soprattutto in italiano e in matematica, delle studentesse e degli studenti, scadendo spesso nel catastrofismo. Lei cosa ne pensa?
I test Invalsi per italiano che ho seguito per un po’di anni sono fatti benissimo, con grande intelligenza, perché mettono in evidenza l’effettiva padronanza linguistica, valorizzando l’aspetto del lessico e della comprensione del testo. Quindi, sono attendibili. Ma la comunicazione in merito all’effettuazione delle prove non è del tutto efficace: molti insegnanti pensano che i test siano un modo per giudicarli. Non è questo lo scopo. Misurano un certo livello di prestazioni degli alunni nel tempo per capire se il lavoro fatto a scuola funziona. Detto questo, certamente i risultati non sono buoni, perché l’indicatore di cui tener conto è il confronto con scuole di altri Paesi Ocse. È un campanello d’allarme che sarebbe sbagliato sottovalutare. Bisogna intervenire certamente, non facendo corsi per preparare ai test, ma insistendo di più sull’effettiva comprensione di testi, e di testi di vario tipo, non solo letterari.

Lei organizza molti corsi di formazione per insegnanti di ogni ordine e grado e all’Accademia dei Lincei. Il ruolo dell’insegnante nella scuola di oggi è sempre lo stesso o è soggetto a cambiamenti?
Il cambiamento è legato al diverso grado di invecchiamento delle singole scienze. È chiaro che una materia come fisica o biologia richiede un aggiornamento per l’insegnante particolarmente forte, perché la situazione è molto cambiata rispetto alle cose studiate, anni prima, all’università. Ma vale un po’ per tutte le materie. Per quanto riguarda l’Italiano c’è la necessità di immettere un’apertura ad altri ambiti, non solo a quello letterario, ma in primo luogo agli ambiti scientifico e giuridico. Quello che un tempo si chiamava tema di attualità, perché non sia un esercizio senza senso, richiede una certa informazione da parte degli studenti e, prima, del docente: aspetto emerso chiaramente in un libretto a cui sono molto affezionato, scritto alcuni anni fa con Giuseppe Benedetti, Scritti sui banchi. L’italiano a scuola tra alunni e insegnanti edito da Carocci, nel quale abbiamo esaminato i compiti di ragazzi di varie parti d’Italia frequentanti il primo anno delle scuole superiori. L’insegnante deve essere più aperto di una volta all’intersezione dei saperi. Comunque, il buon insegnante oggi come ieri è quello che crede nel proprio lavoro.

Lingua e democrazia. Mi torna in mente ciò che scriveva Tullio De Mauro a proposito della nostra Costituzione, con cui l’insegnamento della lingua italiana ha molto a che fare.
De Mauro ha insistito sul fatto che la Costituzione è scritta in una lingua molto trasparente: è vero. Tuttavia, nell’articolo 1 troviamo scritto «la sovranità appartiene al popolo», una frase in apparenza semplice ma in realtà tutt’altro che ovvia. Chi è il popolo? Ne fanno parte i compagni di classe che però non sono cittadini perché sono stranieri? E anche restando nell’ambito degli italiani, un sedicenne non è  sovrano’ nel senso che ovviamente non ha il diritto di voto. Commentare gli articoli fondamentali è un esercizio anche linguisticamente molto importante. Poi, ora si parla molto, giustamente, della parità di genere, e la Costituzione ci permette di verificare con quale ritardo il principio sia stato applicato realmente. Per esempio, nonostante l’articolo 3 sancisca solennemente l’uguaglianza, le prime donne magistrate sono state nominate solo negli anni Sessanta, un dato che gli studenti non conoscono e che invece devono sapere. Un’altra riflessione interessante da fare a scuola, tenendo conto che molti ragazzi hanno i genitori separati o divorziati, è che nel diritto di famiglia è esistita fino a tutti gli anni Sessanta una clamorosa discriminazione uomo-donna per quanto riguarda il reato di adulterio, che ora non esiste più. La donna lo commetteva semplicemente tradendo il marito; l’uomo per ricadere in una fattispecie penale doveva fare molto di più, cioè tenere una concubina a casa o notoriamente in una casa da lui pagata. C’era una discriminante assurda. Tutto ciò è cambiato, però può essere utile far riflettere su questi aspetti dal punto vista della coscienza civile.

Le viene generalmente riconosciuta una modernità di sguardo anche per quel che riguarda la didattica. Che pensa dell’uso della tecnologia a scuola, visto che i bambini e gli adolescenti hanno grande familiarità con i dispositivi digitali?
Credo sia uno strumento in più. Il rischio non è certo legato alla lingua o ad aspetti specifici, ma banalmente ai pericoli per gli adolescenti di passare troppo tempo a “smanettare” sullo smartphone: lo dico sulla base del buon senso, bisogna fare altre cose in una giornata che deve essere ricca di tanti aspetti: relazioni umane, esperienze di lettura. Il danno può esser questo; però, in sé è un’occasione di scrittura che non si poteva immaginare anche cinquanta o sessanta anni fa, quando un grande intellettuale scomparso da poco, Steiner, scriveva che si sarebbe affermata una civiltà dell’immagine senza più scrittura. Non è stato così; la scrittura è ancora largamente presente. Fare previsioni è sempre difficile.

Lei che è stato consulente del ministero dell’Istruzione, ritiene necessaria una riforma della scuola?
Io non credo a una riforma generale, anche perché la scuola non può permettersi come altre istituzioni un ribaltamento totale: si fonda sulla continuità della trasmissione del sapere. Ritengo invece che la scuola superiore di secondo grado debba rimanere legata ai cinque anni, e non ridotta a quattro. I cinque anni sono indispensabili. Faccio un esempio molto specifico: l’insegnamento dell’italiano. Ho molte volte insistito sull’opportunità di far fare esercizi su testi come l’editoriale e il saggio. Questi si possono fare solo con i ragazzi più grandi per ovvie ragioni di orizzonte cognitivo, e poiché nel triennio delle superiori si dà come è giusto molto peso alla letteratura, con quattro anni il tempo per fare questo allargamento non ci sarebbe.

Nelle scuole italiane studiano tante bambine e tanti bambini figli di genitori stranieri. Come è possibile non considerarli cittadini italiani? Lei si è espresso a favore dello ius culturae, che per alcuni non è una priorità.
Io sono convinto che lo sia. Giacciono in Parlamento ben tre proposte di legge di politici di orientamento diverso: Boldrini, Orfini e Polverini; e sono in gran parte sovrapponibili. Si può discutere sulle modalità di richiesta di cittadinanza, ma il principio in sé mi sembra decisamente giusto. Dispiace che invece ci sia una corrente contraria fondata su un clamoroso equivoco che temo intenzionale, e cioè mettere in relazione l’acquisizione della cittadinanza con gli sbarchi dei migranti. Sono due cose che non hanno nessun legame. Considero sensato che completato un determinato ciclo di studi si consegua quella cittadinanza, che direi è stata già verificata sul campo, poiché i ragazzi parlano la stessa lingua, hanno gli stessi gusti, ascoltano la stessa musica. Questo rappresenta di fatto un’italianizzazione reale.

 

* L’autore: Pierluigi Barberio è insegnante di scuola secondaria di secondo grado. Con Enrico Terrinoni nella primavera 2021 ha scritto su Left un Dialogo sulla scuola a puntate

 


L’articolo è tratto da Left del 10-16 settembre 2021

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