Il 30 agosto del 2010 il Colonnello Muhammar Gheddafi a Roma presso la caserma Salvo D’Acquisto tenne un intervento fiume di oltre quaranta minuti tutto incentrato sulla pagina del colonialismo e su inquietanti scenari disegnati dall’avanzata dell’immigrazione africana. Ad ascoltarlo c’è il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, si festeggiava il secondo anniversario del Trattato di Amicizia italo-libico. Gheddafi parlò della Libia come «ponte» privilegiato tra l’Africa e l’Europa. Chiese 5 miliardi di euro perché, disse, «l’Europa un domani potrebbe non essere più europea e diventare addirittura nera perché in milioni vogliono venire in Europa».
La Storia è ciclica e noi continuiamo a dimenticarcene. Avere una classe dirigente superficiale e ignorante significa fare riaccadere fatti già visti come se fossero nuovi, stupirsi ogni volta per lezioni che invece avrebbero dovuto essere mandate a memoria. Se non si impara dalla Storia si ricade negli stessi errori e oltre all’immorale peccato di non avere l’esperienza per leggere il presente accade anche l’umiliazione di meravigliarsi.
Jelly M. Greenhill è una studiosa e ricercatrice americana della Kennedy School of Government, a Harvard, e le sue ricerche sono finite pubblicate in un libro per i tipi della Cornell University Press, disponibili in Italia grazie alla Leg, la Libreria Editrice Goriziana, dal titolo Armi di migrazione di massa. Deportazione, coercizione e politica estera. Greenhill prende in considerazione 56 casi di migrazioni usate come armi per esercitare pressione politica su altri Stati. Secondo Greenhill dal 1951 al 2016 si sono verificati almeno 75 episodi di “migrazione ingegnerizzata” (questa è la definizione che usa nei suoi studi) per persuadere non militarmente alcuni Stati vicini a compiere determinate azioni o comunque per influenzarne le scelte politiche.
L’anno scorso, solo per citare un caso, la Turchia (dopo avere incassato l’impegno dell’Europa di versarle qualcosa come 6 miliardi di euro per “contenere” il flusso migratorio con un accordo considerato piuttosto controverso da molti giuristi internazionali) aprì le frontiere, era il 27 febbraio dell’anno scorso, per esercitare pressione sull’Europa. La stessa Libia negli ultimi anni ha utilizzato il rubinetto dei migranti per ottenere, aprendolo e chiudendolo secondo la necessità, soldi e protezione dall’Europa.
Nel caso di Gheddaffi più del terrorismo o dell’instabilità del mercato petrolifero, egli, scrive Greenhill, riuscì a «esercitare una valida, seppur non convenzionale forma di coercizione nei confronti della più grande unione politica ed economica del mondo» basata su tre punti di pressione deliberata: 1) la creazione, 2) la manipolazione, 3) lo sfruttamento dei migranti e dei rifugiati. Migranti e rifugiati che, letteralmente presi nel gioco di equilibrio e pressione fra Stati canaglia e Stati bersaglio, sono le vere vittime di quelli che Greenhill non esita a definire «disastri innaturali».
Come spiega Greenhill servono almeno tre attori perché la migrazione ingegnerizzata funzioni: i generatori (coloro che innescano crisi sistemiche migratorie come Gheddafi), gli agenti provocatori (soggetti terzi rispetto agli Stati, che possono trasformare una crisi limitata in una crisi di ampie proporzioni facendo pressione e orientando l’opinione pubblica e le azioni umanitarie) e gli opportunisti (coloro che minacciano di chiudere i confini). Insomma, quello che stiamo vivendo ora è stato analizzato e teorizzato anni fa.
Mentre quasi tutti non se ne accorgono la Bielorussa sta usando in questi giorni lo stesso sistema per vendicarsi delle sanzioni imposte dall’Europa spingendo migliaia di migranti (soprattutto afghani e iracheni) verso la Polonia e la Lituania. Chi paga le conseguenze di questo gioco? I migranti, ovviamente. L’altro ieri al confine tra Polonia e Bielorussia ne sono morti 4 (muoiono spesso per congelamento) tra cui una donna che ha lasciato tre figli.
Mentre si tenta di instillare almeno il senso minimo di umanità e accoglienza (che starebbero scritti tra le carte del diritto internazionale) noi ci ritroviamo a uno stadio successivo in cui le migrazioni vengono usate come armi bianche. Se i disperati diventano armi significa che sono strumenti di morte, quindi niente a che vedere con i vivi, più morti dei morti. E solo la consapevolezza di questo terribile passaggio ci permette di progettare (o almeno sperare o combattere per) un ritorno alla giustizia sociale.
I costi dell’ignoranza e dell’ipocrisia, lo scrive sempre Greenhill, «sono quei costi politici e simbolici che possono essere inflitti quando esiste una disparità reale o percepita tra un impegno dichiarato verso valori e norme liberali e azioni che invece contraddicono tale impegno».
A volte basta un po’ di studio, di memoria e di cultura per scoprire la banalità dell’inganno. Chissà che qualcuno non tenga a mente questa lezione e che ne renda conto alla cosiddetta classe dirigente. Chissà.
Buon mercoledì.
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