Alcune idee e proposte per restituire il Tevere ai romani e per una città ecosostenibile

L’obiettivo di queste poche righe, destinate a concittadini e compagni romani, è aprire uno spazio di discussione politica sul nostro fiume Tevere. Il proposito è meno banale di quanto appaia, poiché si deve parlare di un elemento che la storia lunga della città ci ha portato a trascurare, trovando per di più il giusto punto di ingresso. Dobbiamo parlare cioè di un elemento della città politicamente marginale, capire perché è marginale e come riportarlo al centro della nostra idea di città. Per creare un nuovo luogo di socialità che sia attendo anche all’ambiente.

Per farlo devo cominciare da lontano. In linea di massima, si può sostenere che Roma, del fiume, ha parlato per secoli e con tutti i registri – religioso, scientifico, superstizioso in tempo di piene e rovinose inondazioni – come di un elemento onnipresente e altamente politico (tutti vi circolavano, tutti vi abitavano, tutti ne subivano le piene etc.). Con gli avvicendamenti del XIX secolo – il cui punto di partenza, per quel che più interessa, possiamo indicare simbolicamente nella costruzione dei muraglioni (1875-) – il Tevere è stato ridimensionato – sia chiaro: serviva un intervento – portandosi via il ricordo della città che fu e la centralità che il fiume aveva avuto fino ad allora. «La città di Roma, mentre subisce una delle sue maggiori trasformazioni storiche», scriveva il Gregorovius, «va spogliandosi rapidamente della sua vecchia fisionomia». E aveva ragione! Accade ogni volta che si erge un muro. Come a Palermo, i bastioni del XVI secolo avevano distolto la città dal suo elemento, il mare – le mura servivano allora a difendere la città dai pirati, ma il risultato è che ancora oggi Palermo pare una città di terra – così Roma, con gli argini del Canevari smetteva di essere una città fluviale. È venuto subito dopo il XX secolo, sicché, con una battuta, si potrebbe dire che i piemontesi hanno posto le basi dell’eclissi del fiume, l’inquinamento delle acque – frutto dell’inquinamento dei campi e della città – ha fatto il resto.

Così una città d’acqua come la nostra è stata privata del suo fiume al punto che oggi a malapena se ne accorge. Una prima conseguenza di questo esito è che i romani hanno un rapporto molto debole, se non anche rinunciatario con il cuore del loro ambiente. Facciamo eccezione naturalmente per sportivi, artisti e associazioni, soprattutto ecologiste, che da qualche anno lavorano per restituire centralità al tema. Quel che interessa a noi però è che si è installata come una forma di alienazione della popolazione verso l’ambiente di cui è stata privata. Bisogna averne coscienza se vogliamo darci una strategia per restituire l’ecosistema urbano ai suoi abitanti.

Che fare, dunque? Propongo di ragionare su due parti diverse dell’ambiente fluviale, ciascuna con una sua politica e una sua temporalità: l’una relativa alle sponde, su cui possiamo incidere in un tempo relativamente breve, l’altra relativa alle acque. Per quest’ultima è richiesto invece un certo sforzo di proiezione nel tempo.

Partiamo dalle sponde e cominciamo col dire che le rive del Tevere non sono tutte uguali. Ve ne sono di selvatiche, di arginate e urbanizzate. Ve ne sono poi, sul piano giuridico, di libere e di precluse al pubblico o affidate in concessione (circoli sportivi o locali temporanei). Nel vuoto popolare, si sono stanziati infatti i soggetti economici (o circoli ricreativi spesso molto esclusivi) e si è sviluppato lungo il fiume un panorama socio-urbanistico estremamente variegato, che possiamo leggere tanto in termini di più o meno urbanizzazione che di più o meno privatizzazione.

Spesso i due fenomeni corrono insieme. Una buona politica, per i fini che ci interessano, sarebbe quella di promuovere ovunque possibile spazi o circoli pubblici sulla sponda attrezzando alcuni punti della riva in modo da assecondare il contatto dei cittadini con l’ambiente fluviale. Ciò potrebbe implicare anche una revisione delle concessioni ai soggetti privati del fiume, al fine di riportare la fruizione delle sponde a un maggior equilibrio. Degli spazi pubblici, si dovrebbe poi enfatizzare la vocazione sociale. Il fiume è forse il primo bene comune di Roma e come tale deve essere utilizzato.
Vengo alla parte più impegnativa e più bella, vale a dire le acque che l’inquinamento industriale e più generalmente cittadino ci hanno negato. Quel che occorre studiare quindi è l’idea di un Tevere risanato.

Bisogna dire anzitutto che non siamo soli nel nostro desiderio del fiume. Da Boston a Basilea, rispettivamente con la Charles River Initiative iniziato negli anni Novanta e la bonifica del Reno iniziata negli anni Ottanta, passando per Berlino, dove i sostenitori del Flussbad Project lavorano alla balneabilità della Spree, e per Parigi, dove si sperimentano piscine di fiume, sono diversi i progetti che mirano a riportare i cittadini in acqua e, di conseguenza, si confrontano all’obiettivo di uno stato ecologico ottimale dei fiumi.

A Roma occorrerebbe confrontarsi con uno stato delle acque non particolarmente incoraggiante, ma neanche disastroso. Gli ultimi monitoraggi per il tratto urbano (Ponte Milvio) restituiscono un indice LIMeco pari a 0,28, dunque quasi sufficiente nella prospettiva di uno stato ecologico ottimale. Ancora, bisognerebbe affrontare il problema degli scarichi abusivi, degli sversamenti non depurati e, naturalmente, del cosiddetto runoff della città (si ha runoff quando la pioggia riversa gli inquinanti del manto urbano nel fiume).
I tempi, gli sforzi ingegneristici e gli investimenti pubblici necessari sono estremamente importanti, al punto forse da superare le stesse possibilità finanziarie del Comune di Roma. Ma non sono impossibili. Soprattutto, non sono motivo sufficiente per non ragionare di una possibilità che interventi e concezioni storicamente situati hanno negato all’immaginario popolare.

Restituire il Tevere ai romani non è un desiderio romantico, la nostalgia un po’ sbiadita e velleitaria di una Roma andata. Si tratta al contrario di prendere coscienza del fatto che il nostro distacco dal cuore del nostro ecosistema – che è poi anche una diminuzione della nostra socialità – non ha nulla di necessario e molto di ingiusto. Perdiamo noi e perde il nostro ambiente. È tempo di provare ad invertire la rotta.

*L’autrice: Benedetta Rinaldi Ferri è giurista e giovane candidata al Consiglio del Municipio II di Roma con Sinistra civica ecologista