Il reddito di cittadinanza ha dei limiti da eliminare, come «la discriminazione nei confronti delle famiglie numerose con figli minori e degli stranieri», dice la sociologa Chiara Saraceno. Ma «non va affatto abolito», come vorrebbero Renzi e le destre, anche perché «consente di rifiutare lavori che in realtà sono totale sfruttamento»

Il presidente di Confindustria parla di “sussidistan” stigmatizzando gli aiuti di Stato a disoccupati e lavoratori, “dimenticando” i moltissimi aiuti ricevuti dalle imprese. Intanto Salvini e Renzi lanciano una crociata contro il reddito di cittadinanza incolpando di fannullaggine i poveri. Che in Italia sono molto aumentati dopo la pandemia. Secondo l’Istat l’impatto economico sociale della crisi sanitaria ha creato un milione di poveri in più in un solo anno.

Autrice del libro Il welfare (il Mulino, 2021) e di Poverty in Italy con David Benassi e Enrica Morlicchio, in via di traduzione in italiano, la sociologa Chiara Saraceno è stata chiamata dal ministro Orlando a far parte di un gruppo di lavoro per riformare il reddito di cittadinanza. A margine di un incontro coordinato da Left al festival Con-vivere le abbiamo chiesto di aiutarci a fare un quadro di una situazione che appare drammatica nonostante gli auspicati segnali di ripresa dell’economia.

Professoressa Saraceno, l’ex presidente del Consiglio Renzi lancia un referendum per abolire il reddito di cittadinanza. Cosa ne pensa alla luce del suo lavoro di esame di questa misura?
Penso che non vada affatto abolito. Il reddito di cittadinanza è necessario ed è una misura che esiste in tutti i Paesi sviluppati d’Europa, Grecia compresa, che è arrivata buon ultima, ma comunque prima di noi.

Immemore di se stesso Renzi rivendica  il reddito di inclusione (Rei) come una conquista del proprio governo (in realtà l’iter si concluse nell’ottobre 2017 molto dopo le sue dimissioni) e ora lo propone. Potrebbe funzionare?

Il Rei era una misura ridotta e aveva una visione decisamente parziale della povertà. Riguardava solo i poverissimi, quindi non forniva sufficienti sostegni a chi ha bisogno di essere traghettato, a chi necessita di tempo per poter uscire dalla povertà. Insomma se con il reddito di cittadinanza sono esclusi molti poveri assoluti, con il Rei erano esclusi quasi tutti.

Ma prima di varare il reddito di cittadinanza nel 2019 sarebbe stato meglio riformare il Rei?

In un mondo in cui la politica fosse meno legata alle scadenze elettorali, certo, sarebbe stato più opportuno modificare il Rei, finanziarlo meglio, allargando la platea, ma non è avvenuto. Adesso non dobbiamo fare lo stesso errore di buttare il bambino con l’acqua sporca. Il reddito di cittadinanza va riformato perché ci sono errori di disegno, su questo c’è accordo anche tra i sostenitori e dentro il M5s. Del resto anche quando una misura sociale è disegnata nel modo più coerente (e non è il caso del reddito di cittadinanza) poi va testata alla prova empirica, dunque bisogna vedere cosa funziona e cosa no, cosa va corretto.

Quali sono gli aspetti del reddito di cittadinanza che vanno riformati?

I limiti più gravi che vanno assolutamente corretti riguardano la discriminazione nei confronti delle famiglie numerose con figli minori e nei confronti degli stranieri. Questi due scogli vanno tolti. Tuttavia va dato atto ai Cinquestelle di aver investito sei miliardi su questo progetto. Per la prima volta in Italia si è speso così tanto per contrastare la povertà.

Il requisito di residenza richiesto agli stranieri è particolarmente ingiusto?

Sì è particolarmente esoso. La residenza di dieci anni che probabilmente ci sta portando a una procedura di infrazione da parte dell’Unione Europea è un principio che va mutato. Si sta discutendo se portarlo a cinque anni per avere il permesso di soggiorno a livello europeo di lunga durata oppure a due. Comunque dieci anni è inaccettabile.

Invece di costringere i percettori del reddito di cittadinanza ad accettare lavori qualsiasi non sarebbe stato meglio pensare un sostegno ad hoc coerente al progetto lavorativo del singolo? In altri Paesi europei esiste un reddito per gli artisti, per i giovani che vogliono uscire di casa e così via…

Qui stiamo parlando di un sostegno al reddito per chi non ne ha a sufficienza per i propri bisogni di base, altro è sostenere giustamente la formazione, l’uscita di casa ecc. Nell’idea originaria del M5s era tutto mescolato, tanto che originariamente pensavano ad un reddito per i giovani. Non mescoliamo le cose. Allora potremmo parlare anche di reddito di base universale, ma non è questo di cui stiamo discutendo ora. Stiamo parlando di una misura di contrasto alla povertà.

Oggi in Italia si parla molto di ripresa, di aumento del Pil, ma i dati ci dicono che la povertà è  e resta una vera emergenza.

Sì, purtroppo lo è. Molte più famiglie sono diventate assai più vulnerabili dal punto di vista economico. Molti hanno perso il lavoro o sono entrati in cassa integrazione. E meno male che c’era il reddito di cittadinanza, perché spesso chi lavorava, aveva lavori precari, temporanei, e poi non ha avuto più nemmeno accesso a quei lavori lì. Neanche nel mercato nero… Tutto questo è avvenuto in una particolare congiuntura: la povertà era molto aumentata con la crisi del 2008. Poi nel 2019 stava calando, in parte anche perché era stato introdotto il reddito di cittadinanza, in parte perché seppur tardivamente stavamo riprendendo fiato dalla crisi degli anni Dieci.

Le analisi confermano che le fasce più colpite sono state le donne e i giovani?

Le donne sono la maggioranza dei beneficiari del reddito di cittadinanza e non sorprende perché sono quelle più lontane dal mercato del lavoro, soprattutto quelle di una certa età, ma anche fra le più giovani.

Per i più piccoli la povertà materiale diventa anche, troppo spesso, povertà educativa?

È una questione che riguarda soprattutto i bambini. Perciò è grave che famiglie con minorenni siano discriminate: sappiamo che la povertà sperimentata precocemente durante la formazione ha un effetto di lungo periodo; le deprivazioni riguardano la nutrizione, l’istruzione, ma toccano anche aspetti psicologici. Gli studi purtroppo ci dicono anche che oggi la povertà vissuta da minorenne è predittiva anche di una povertà da adulti. Finalmente pure in Italia si sta mettendo a fuoco il problema della povertà educativa, grazie a Save the children che aveva lanciato l’allarme anche prima della pandemia e alla associazione Alleanza per l’infanzia. La povertà educativa è davvero un grosso problema.

Lo vediamo anche dai test Invalsi, per quanto siano uno strumento assai criticato?

Il sistema formativo scolastico compensa poco le disuguaglianze di origine familiare, in termini di sviluppo cognitivo, non offre compensazione come invece avviene in altri Paesi. I test sono quello che sono, beninteso, ma se osserviamo che in Italia mostrano un divario più grande rispetto alla Finlandia o un altro Paese dobbiamo porre un problema oltre che criticare lo strumento. Non mi posso consolare dicendo che i test hanno una funzione limitata.

Dopo due anni di scuola a intermittenza lei ha denunciato il disastro antropologico di cui troppi alunni sono vittime a causa della irresponsabilità della politica. Qual è il quadro che abbiamo davanti?

Il quadro è drammatico non dimentichiamo che siamo anche il Paese che ha anche il tasso più alto di Neet: non sono mica sdraiati sul divano, non sono figli dei ricchi che non vogliono studiare, sono quelli che hanno abbandonato la scuola! In Italia abbiamo un tasso di abbandono scolastico e di elusione altissimo, oltre a un tasso di abbandono implicito, ovvero ragazzi che vanno a scuola ma non hanno più la motivazione, dunque non apprendono. Sembra che a seguito della pandemia siano ulteriormente aumentati, il fatto purtroppo non mi sorprende.

La povertà non è un dato di natura. Le politiche neoliberiste che hanno favorito la precarizzazione del lavoro l’hanno fatta aumentare?

Sicuramente la precarizzazione del lavoro ha reso molto più vulnerabili quelli che ne sono stati colpiti. Anche i bassi salari sono un problema. Ci sono famiglie di lavoratori con un reddito troppo basso per affrontare la quotidianità. I dati Istat mostrano che un 12 per cento delle famiglie con lavoratori manuali sono in povertà assoluta. Salari bassi, lavori temporanei, ma anche i salari minimi sono molto bassi. Tornando al reddito di cittadinanza, quando ragioniamo su quello che viene definito un salario congruo che non permetterebbe di rifiutare un lavoro parliamo 850 euro, il massimo del reddito di cittadinanza è 780 più dieci per cento. Ci sono offerte di lavoro che pagano anche meno di così e molti sono lavori a tempo parziale involontario.

Colpisce che una parte della classe dirigente non priva di responsabilità rispetto a questa situazione denigri i poveri quasi accusandoli di cattiva volontà, che ne pensa?

Viene visto con sospetto chi riceve il reddito di cittadinanza ma è difficile che uno rifiuti il lavoro perché la sua famiglia prende un reddito di 550 euro. Non si considera poi un fatto positivo: avere un reddito di cittadinanza per quanto modesto consente di rifiutare i lavori di sfruttamento totale del tipo “ti do 500 euro per un contratto di lavoro a tempo parziale però poi ti faccio lavorare 12 ore”. Quindi potrebbe essere una occasione, sta emergendo il nero non solo dei percettori ma anche dei datori di lavoro, stanno venendo alla luce casi di caporalato. Ciò detto il “sussidistan” non riguarda solo il reddito di cittadinanza. Leggendo il rapporto Inps vediamo che per fortuna c’è stata la cassa integrazione, per fortuna ci sono state misure di protezione. Se non ci fossero state, la caduta di reddito sarebbe stata molto più alta, quindi gli ultimi che devono parlare sono proprio gli imprenditori che hanno usufruito di molti aiuti pubblici. Vengono guardati male i percettori del reddito ma dai dati dell’Istat emerge che la cassa integrazione è stata usata molto impropriamente da molte aziende che hanno messo in cassa i lavoratori e li hanno fatti andare al lavoro lo stesso. Fra gli artigiani e i liberi professionisti che hanno preso i primi aiuti economici c’è stato qualcuno che ha guadagnato di più nel 2020. È una minoranza, ma è accaduto. Giustamente poi hanno pensato che l’accesso agli aiuti dovesse essere legato a una documentata perdita di reddito.

Per affrontare questa situazione servirebbero più politiche attive del lavoro?

C’è una vera mancanza di politiche attive che non riguardano solo il mancato incontro fra domanda e offerta di lavoro ma comprendono anche la formazione. Diciamolo, questo è un Paese che non ha mai davvero investito in politiche attive del lavoro. Un po’ ottimisticamente i proponenti del reddito di cittadinanza lo hanno definito tale. Ma non bastano i navigator. Anche il più bravo non può far molto se il centro per l’impiego non funziona, se non ci sono occasioni formative adeguate a questo tipo di situazioni, tenga conto che la stragrande maggioranza dei percettori del reddito di cittadinanza, inclusi i giovani, hanno al massimo la licenza media, non è colpa del reddito di cittadinanza se non si trovano operai specializzati o ingegneri come invece si sente dire in tv. C’è un insufficiente sistema scolastico, bisogna fare in modo che non abbandonino la scuola, bisogna far sì che vengano trattenuti da una didattica più efficace, che non li butti fuori. Il problema non è promuovere tutti ma dare a tutti le possibilità di sviluppare le proprie potenzialità, competenze e capacità.


L’articolo prosegue su Left del 24 settembre 2021

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