Secondo l’ultimo rapporto dell’Ocse l’Italia registra forti ritardi rispetto agli altri Paesi sul fronte della spesa per le attività di Ricerca e sviluppo. E il Piano nazionale di ripresa e resilienza non colma il divario. E poi è sbilanciato, perché privilegia la ricerca applicata orientata al mercato

La notizia del premio Nobel a Giorgio Parisi ha suscitato nella comunità scientifica e nell’opinione pubblica una emozione ed un orgoglio contagiosi. Per trovare un premio Nobel assegnato ad un ricercatore italiano per una ricerca fatta in Italia, bisogna risalire all’inizio degli anni Sessanta, all’ingegnere chimico Giulio Natta. Fu uno dei miracoli italiani che trasformarono l’Italia da Paese agricolo ad una economia industrializzata, e grazie al suo lavoro l’Italia si trovò, con la chimica, al centro della ricerca mondiale. Se i segni della storia hanno un valore, questo Nobel del 2021 è indubbiamente una iniezione di fiducia ma allo stesso tempo fa emergere in modo dirompente tutte le difficoltà che incontra chi vuole fare ricerca in Italia.

La debolezza e la precarietà della ricerca scientifica nel nostro Paese sono ormai un fatto conclamato: abbiamo un basso numero di laureati nelle discipline scientifiche (tredicesimi in Europa) e circa la metà dei ricercatori rispetto alla media europea. I nostri docenti universitari sono anziani, solo il 13% è al di sotto dei quarant’anni (contro oltre il 60% in Lussemburgo) e solo uno su tre sono donne (contro il 56% della Lituania). Il numero di dottorati di ricerca conseguiti in Italia è in costante riduzione negli ultimi anni ed è tra i più bassi nella Ue: in Italia solo una persona su…

* L’autrice: Serena Pillozzi, PhD, docente a contratto all’Università di Firenze, fa parte della Segreteria nazionale di Sinistra italiana, responsabile Salute


L’articolo prosegue su Left dell’15-21 ottobre 2021

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