Con le vittorie di Ronald Reagan negli Stati Uniti, e di Margaret Thatcher nel Regno Unito, gli anni Ottanta si aprirono con un radicale cambiamento delle politiche economiche: la celebre affermazione del primo, secondo cui “lo Stato è il problema e non la soluzione”, e della seconda, secondo cui “la società non esiste, esistono solo gli individui con le loro famiglie”, illustrano bene la visione sottostante al progetto neoliberista, che segnò quel decennio e quelli successivi. Nel 1989 l’economista Williamson definì l’insieme delle ricette neoliberiste con il termine Washington Consensus. Quel consensus, riassunto in dieci prescrizioni, prevedeva rigore fiscale, riduzione dell’intervento pubblico nelle economie, deregolamentazione, liberalizzazioni dei movimenti delle merci e dei capitali, protezione dei diritti di proprietà. Fu sempre più difficile difendere il lavoro perché le imprese potevano delocalizzare ovunque trovassero conveniente farlo, come anche difendere lo stato sociale, perché, mentre le tasse sui ricchi diminuivano, le stesse imprese, praticando la cosiddetta “ottimizzazione fiscale”, facevano comparire i loro profitti dove meno erano tassati. La protezione intellettuale dei brevetti garantiva lauti profitti alle multinazionali, sia a scapito dei Paesi più poveri, sia del settore pubblico, il quale continuava a sostenere la ricerca di base ma poi si trovava in una posizione di debolezza rispetto al potere sempre crescente delle stesse multinazionali: il caso della trattativa tra l’Europa e le grandi case farmaceutiche sui vaccini per il Covid ne è un illuminante esempio. Insomma, con il sigillo del Tina (There Is No Alternative), il neoliberismo ha definito le politiche economiche globali, i confini delle politiche pubbliche e gli assetti internazionali fino ad oggi.
Di questo il nostro giornale si è occupato a lungo. Altrettanto spesso abbiamo posto in luce il nesso strettissimo che lega queste politiche alla crisi politica dell’Occidente capitalistico. Perno della sua stabilità, infatti, è sempre stato il benessere delle classi medie. Nonostante le politiche neoliberiste da tempo penalizzino strati sociali sempre più vasti, prima della crisi del 2008 la stabilità era ancora assicurata dal benessere della maggioranza della società, cosicché le minoranze affette da difficoltà materiali non riuscivano ad incidere più di tanto sulle scelte pubbliche. Dopo è cambiato tutto.
I segni di crisi di questo modello economico si presentarono fin dagli anni Novanta: crolli valutari, finanziari e borsistici si verificarono in Messico (1994), Sud Est Asiatico (1997), Russia (1997-1998), Brasile (1998-1999), Argentina (2001), ma anche nel cuore del capitalismo, quando nel 2000, negli Stati Uniti, scoppiò la bolla dei titoli tecnologici. Di scala completamente diversa fu appunto la crisi del 2008, a seguito della quale si pensò che il neoliberismo fosse alle nostre spalle. Non fu così: ad essa seguirono enormi interventi pubblici, che cercarono di coprire i disastri della finanza deregolamentata e rimettere in moto un meccanismo ormai inceppato. Questi interventi da un lato mostrarono la falsità della tesi di Reagan secondo la quale “lo Stato è il problema e non la soluzione”, dall’altro realizzarono uno strano socialismo per i ricchi, dove speculatori e grandi banche furono protetti, e la gran massa della popolazione subì invece danni pesantissimi. Anche l’Europa, piuttosto che cambiare rotta, affrontò le conseguenze di quella crisi all’insegna delle ricette neoliberiste e delle politiche di austerità, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
Il Covid e un degrado ambientale che sembra inarrestabile, hanno ormai reso consapevoli le stesse classi dirigenti capitalistiche che le ricette neoliberiste sono ricette per il disastro. Già il Forum di Davos dell’inizio dell’anno indicava la maturazione di una consapevolezza nuova: quell’incontro avvenne all’insegna del “Great Reset”, cioè dell’idea che il mondo andava ripensato. A Davos è stata anche proposta una tassa internazionale sui giganti del web. Assai più rilevante è un documento pubblicato il 13 ottobre scorso (Global Economic Resilience: Building Forward Better: The Cornwall Consensus and Policy Recommendations), con il quale il Panel del G7 si pronuncia esplicitamente per la sostituzione del Washington Consensus con nuovo consensus internazionale, denominato Cornwall Consensus in omaggio alla contea inglese dove nel giugno scorso Boris Johnson ha accolto i leader del G7. Nel documento si propone una radicale revisione delle politiche economiche globali, per creare un sistema economico in grado di ridare legittimità ai governi e soddisfare i bisogni collettivi. Tra i pilastri del Cornwall Consensus troviamo, infatti, la salute globale, l’ambiente, la governance digitale, i diritti dei lavoratori, gli standard di protezione del lavoro, la correzione delle fragilità del mercato, la tassa minima globale sulle imprese.
Sono sviluppi rilevantissimi, che andranno seguiti con attenzione. I quesiti che un simile cambio di prospettiva solleva, comunque, non sono di poco conto. Anzitutto la sequenza degli avvenimenti mostra, ove ce ne fosse ancora bisogno, un aspetto inquietante del neoliberismo: le classi dirigenti capitalistiche, che qualche decennio fa hanno imbracciato il neoliberismo spazzando via ogni pensiero critico in economia, oggi tornano sui loro passi senza che vi sia una revisione teorica sostanziale, né che gli assetti di potere subiscano alcuna modificazione. Il fatto che il cambiamento sia stato inizialmente proposto a Davos, e solo in seguito sia stato recepito all’interno del G7, indica chiaramente quali sono i luoghi effettivi del potere, e quale funzione subalterna svolgano i governi democraticamente eletti.
In secondo luogo, il neoliberismo non ha rappresentato solo un modello a cui le politiche pubbliche ed i governi dovevano necessariamente aderire, ma ha avuto anche una funzione culturale. L’idea che “la società non esiste”, infatti, ha costituito un invito per l’individualismo esasperato e per la ricerca del benessere sul piano dell’interesse e dell’arricchimento individuale. Nell’ideologia di questi decenni, il modello dell’uomo economico è stato un cardine fondamentale. Per il rifiuto di questo modello, non basta Davos o un documento del G7; serve invece una consapevolezza diffusa su ciò che fa star bene e ciò che fa star male le persone, consapevolezza che è in contrasto con i valori che propone la cultura dominante.
Riguardo all’economia, è necessaria una modifica della sua posizione nella società, in conseguenza della quale risulti chiaro che il benessere economico è solo un aspetto secondario del benessere umano. Quest’ultimo va ricercato nella qualità della vita, e soprattutto nella qualità dei rapporti interpersonali, e non nel rapporto con gli oggetti materiali. Va acquisita quella distinzione tra bisogni ed esigenze proposta dallo psichiatra Massimo Fagioli, e su cui tanto lavoro questa rivista – e il gruppo di ricerca che attorno ad essa si è formato – ha svolto e continuerà a svolgere con sempre maggior convinzione. Perché, lo ripetiamo, sebbene Davos, il G7, le élite capitalistiche e i loro esperti siano lontani da noi, un passo importante è stato compiuto. Da oggi tutti coloro che lottano per una società diversa non hanno più il neoliberismo da contrastare: dovranno invece lavorare per liberarci più in fretta e radicalmente possibile del suo cadavere, i cui miasmi condizioneranno ancora a lungo la nostra vita sociale.