Gli sforzi politici dovrebbero essere in gran parte concentrati sulla riduzione dei livelli delle emissioni dovute al 10% più ricco della popolazione e in particolare dell’1% di “ricchissimi”. È questo il messaggio che lanciano i giovani ambientalisti

Dopo la deludente conclusione del G20 di Roma da inizio novembre è in corso la Cop-26 a Glasgow che già si preannuncia a sua volta deludente (l’India ha già spostato i suoi obiettivi di emissioni zero al 2070, l’accordo sulla deforestazione parte dal 2030…). I “grandi della terra” discutono su come affrontare la crisi climatica. Intanto i giovani che hanno capito di essere senza futuro protestano urlando “i veri leader siamo noi” e che i grandi sono “parte del problema”.

Cerchiamo di capire le ragioni.
Partiamo da un presupposto: l’istinto di conservazione permette all’uomo di reagire prontamente ai pericoli immediati come ad un attacco improvviso. Viceversa la percezione di un pericolo di medio-lungo periodo è molto più bassa, si tende a rinviare il problema e a pensare che sarà compito di qualcun altro affrontarlo. Ebbene la crisi climatica è un problema che viene visto “lontano”, e che quindi può essere demandato a qualcun altro. La politica a sua volta, che dovrebbe affrontare problemi di ampio respiro e pianificare soluzioni, invece si limita a fronteggiare le scadenze elettorali e per tale motivo non si occupa di problemi complessi e di lunga durata ma vuole solo presentare ai cittadini risultati immediati. Ha tutto l’interesse di minimizzare i problemi ed enfatizzare successi (anche successi molto parziali se non inesistenti). Il mondo economico deve proteggere i suoi “investimenti” e i suoi profitti e una percezione di crescita, di positività è essenziale per evitare crisi sistemiche che ne mettano in dubbio i patrimoni.

Certo poi la crisi climatica i conti comincia a presentarli: temperature record (4,8 gradi in Sicilia, 50 gradi in Canada), morti per alluvioni, tifoni, acqua alta a Venezia nonostante il Mose… ma tutto viene affrontato come calamità puntuale, tutto rientra nel “pericolo immediato”. Si scordano subito i motivi profondi.
Cerchiamo quindi di ricordare qualche dato.
Dalla rivoluzione industriale, l’umanità ha emesso circa 2500 miliardi di tonnellate di CO2. Sulla base degli attuali tassi di emissione, il restante budget di carbonio per limitare il riscaldamento globale a 2C° rispetto ai livelli preindustriali (ovvero 900 miliardi di tonnellate di Co2) sarà completamente esaurito in 18 anni. Per limitare il riscaldamento globale a 1,5C°, il budget rimanente (300 miliardi di tCo2) si esaurirà in 6 anni.
Nel 2019 le emissioni globali di gas serra hanno raggiunto i 50 miliardi di tonnellate di anidride carbonica equivalente (Co2) annue, ovvero circa 6,6 tonnellate di Co2 pro capite. Nel 2021, le emissioni globali hanno di fatto recuperato il picco pre-pandemico.
A livello globale, il 10% più ricco della popolazione (771 milioni di individui) emette in media 31 tonnellate di CO2 per persona all’anno ed è responsabile di circa il 49% delle emissioni globali di CO2. Il 50% più povero (3,8 miliardi di individui) emette in media 1,6 tonnellate ed è responsabile di circa il 12% di tutte le emissioni. L’1% più ricco del mondo emette in media 110 tonnellate di Co2 pro capite e contribuisce al 17% di tutte le emissioni in un anno.

La disuguaglianza globale nelle emissioni pro capite è dovuta a grandi disuguaglianze nelle emissioni medie tra i Paesi e a disuguaglianze ancora più grandi nelle emissioni all’interno di ciascun Paese. Attualmente, le emissioni medie in Europa sono vicine a 10 tonnellate di Co2 per persona e per anno. In Nord America, l’individuo medio emette circa 21 tonnellate (ma il 10% dei nordamericani più ricchi emette in media 75 tonnellate pro capite e il 50% più “povero” solo 10 tonnellate). Questo valore è di 8 tonnellate in Cina (ma il 10% dei cinesi più ricchi emette in media 36 tonnellate e il 50% più “povero” solo 3 tonnellate), di 20 tonnellate in Australia (ma il 10% dei più ricchi emette in media 62 tonnellate e il 50% più “povero” solo 10 tonnellate) di 2,2 tonnellate in India (ma il 10% dei più ricchi emette in media 9 tonnellate e il 50% più “povero” solo 1 tonnellata). Valori ancora più bassi in Africa dove in Congo il 50% più povero emette solo 0,3 tonnellate di Co2 in media ogni anno.

Ovviamente ancora più macroscopiche le differenze se prendiamo a riferimento l’1% della popolazione più ricca: le 110 tonnellate di Co2 emesse mediamente da ciascuno degli appartenenti a questa “fortunata” fascia di popolazione vanno dalle quasi 280 tonnellate pro capite degli statunitensi alle 5,7 del Congo passando per circa 137 tonnellate pro capite dei cinesi e le 201 degli australiani. In Italia 65 tonnellate per ciascuno degli appartenenti all’1% più ricco.
Questi dati attuali vanno anche confrontati con la disuguaglianza storica delle emissioni tra le regioni che è molto ampia: il Nord America e l’Europa sono responsabili di circa la metà di tutte le emissioni dalla Rivoluzione industriale. La Cina rappresenta circa l’11% del totale storico e l’Africa subsahariana appena il 4%.

Cerchiamo anche di capire la correlazione tra emissioni di Co2 e ricchezza. Negli stati Uniti il 10% della popolazione detiene oltre il 45% dei redditi (era il 34% nel 1980). In Europa il 10% più ricco ne detiene il 35%. In Russia il 10% più ricco ha il 46% (era il 23% nel 1988) del reddito nazionale, più del doppio della quota del 50% più povero.
Anche in Asia, la disuguaglianza è aumentata in modo significativo dagli anni 90. In India, la quota di reddito del 10% della popolazione più ricca è cresciuta dal 34% del 1990 a circa il 57% di oggi. In Cina è cresciuta dal 30% al 42%.
Il 10% più ricco della popolazione mondiale è responsabile di quasi il 50% delle emissioni globali di Co2. Il 50% più povero della popolazione mondiale è responsabile di circa il 10% delle emissioni. Oltre ad avere i redditi annuali più alti il 10% più ricco detiene il 92% della ricchezza globale.

È impressionante la correlazione che esiste tra livello dei redditi ed emissioni di gas climalteranti. E non è un caso. Maggiore reddito equivale anche a maggiori consumi. E il paradigma dell’attuale modello economico capitalista si basa sul consumismo: estrazione (di risorse naturali), produzione, consumo, creazione di rifiuti. Cioè sfruttamento delle risorse naturali, sfruttamento del lavoro, sfruttamento dell’ambiente. Sempre a scopo di profitto per quel famoso 10% responsabile, non a caso, della metà delle emissioni globali. Cioè la crisi ambientale è dovuta al profitto. Per dirla con Naomi Klein: “il capitalismo non è sostenibile”. Per rimanere in Italia i casi dell’Ilva e di Porto Marghera sono esempi chiarissimi: sfruttamento del lavoro e sfruttamento dell’ambiente, danni lasciati in carico alla collettività e profitti intascati da pochi. E sfatiamo anche le favole sulla “decrescita felice”. Non dobbiamo ridurre il benessere per tutti ma solo ridistribuire una ricchezza che è incredibilmente sproporzionata e che per questo ha creato il riscaldamento climatico. La crescita infinita su cui si basa il modello capitalistico è impossibile in un pianeta che ha risorse finite.

Da anni la scienza ci dimostra che il riscaldamento climatico esiste e che produce enormi danni. Ciononostante invece di iniziare a ridurre le ricchezze dei più ricchi (e le loro emissioni) quello che è successo è che dal 1990, le emissioni dell’1% più ricco sono aumentate più velocemente di qualsiasi altro gruppo a causa dell’aumento delle disuguaglianze economiche all’interno dei Paesi e a causa del contenuto di carbonio dei loro investimenti.
In molti Paesi ricchi, le emissioni pro capite della metà più povera della popolazione sono diminuite dal 1990, contrariamente a quelle dei gruppi più ricchi. Gli attuali livelli di emissioni della metà più povera della popolazione sono vicini agli obiettivi climatici pro capite per il 2030 negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Germania o in Francia.
Gli sforzi politici dovrebbero quindi essere in gran parte concentrati sulla riduzione dei livelli delle emissioni dovute al 10% più ricco della popolazione e in particolare dell’1% di “ricchissimi”. In particolare nei Paesi occidentali (Stati Uniti ed Europa in testa) che finora sono stati responsabili della grande parte delle emissioni. Ma anche nei Paesi a basso reddito ed emergenti è necessaria un’azione urgente per ridurre le emissioni dei ricchi per permettere ad alcuni gruppi finora svantaggiati di aumentare i loro livelli di emissioni nei prossimi decenni.

La crisi climatica va sostanzialmente pagata da quel 1% di popolazione più ricca. Se non si adottano ora politiche di ridistribuzione della ricchezza la crisi climatica non si potrà risolvere. Questo il messaggio per i “grandi” che urlano gli attivisti climatici. Per questo è vero che i “leader” sono loro. Perché hanno capito che per avere un futuro si deve agire radicalmente e globalmente subito e continuare nel medio-lungo periodo. Perché sanno che altrimenti non ci sarà più un futuro per nessuno.


Per approfondire, leggi Left del 29 ottobre 2021

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