A leggere i giornali italiani, il G20 di Roma è stato «un successo» (Repubblica) e si è «evitato un fiasco finale» (Corriere della sera). Basta però aprire altri giornali dell’area liberal anglosassone per avere una prospettiva del tutto diversa: «I Paesi poveri preoccupati dagli scarsi progressi del G20 sul clima», titola il britannico Guardian; più dura ancora la statunitense Cnn, che afferma che «il comunicato finale del G20 manca di impegni decisi e fallisce nell’obiettivo di porre una data limite per la fine del corrente uso del carbone». Insomma, il G20 romano sarebbe stato un fiasco. E anche un po’ trash, se pensiamo alla scena delle monetine alla fontana di Trevi che se fosse stata pensata da un Casalino qualsiasi sarebbe già passata alle cronache come il solito folklore di un’Italia provincialissima. Ma si sa, ora c’è Draghi. In effetti non si capisce i media italiani cosa abbiano da esultare. Soprattutto se parliamo del tema principe del vertice, l’ambiente.
Le emissioni di anidride carbonica subiranno un’impennata di 1,5 miliardi di tonnellate nel 2021 rispetto al 2020, anno in cui c’era stato un calo dovuto al blocco di numerose attività causa pandemia. Nel 2030 le emissioni globali saranno del 16% più alte che nel 2010. Altro che diminuzione. L’obiettivo di contenere il surriscaldamento climatico a 1.5°C difficilmente potrà essere ottenuto e a oggi viaggiamo dritti dritti verso un +2.7°C (se tutto il mondo fosse la Ue l’aumento arriverebbe a 3°C; se fosse gli Usa addirittura a 4°C). Se volessimo raggiungere l’obiettivo dovremmo produrre una riduzione delle emissioni di CO2 del 45% entro il 2030; e se volessimo puntare a un meno ambizioso obiettivo di un aumento di 2°C servirebbe comunque un -25% entro il 2030. Ma ben 113 governi hanno già annunciato che entro il 2030 limiteranno l’emissione di gas serra solo del 12% rispetto al 2010. Non esattamente ciò che servirebbe.
E no, un aumento delle temperature non significa che potremo andare più spesso a mare e soffriremo meno il freddo. Ciò che comporta, al contrario, lo vediamo con gli “eventi eccezionali” che già oggi costituiscono una nuova normalità. Dalle alluvioni nell’Europa centro-settentrionale dell’estate 2021, passando per il ciclone che ha provocato morte e distruzione a Catania. O, uscendo un po’ dall’Europa, i 2.300 morti in India nel 2015 per l’ondata di caldo; sempre nel 2015, i 36 milioni di cittadini che tra Africa meridionale e Africa Orientale hanno sofferto la fame perché il caldo e le scarse piogge avevano distrutto i raccolti. O, ancora, gli incendi che sempre nel 2016 bruciarono 600mila ettari in Canada, distruggendo o danneggiando 2.400 edifici e provocando danni economici per circa 9 miliardi di dollari canadesi, oltre che l’evacuazione di tantissimi cittadini.
Pensate forse che, per contrastare tutto ciò, produzione di energie fossili, carbone, petrolio e gas diminuiranno – fosse anche in maniera insufficiente – nei prossimi anni? Siete fuori strada: i piani attuali prevedono un +240% di carbone, +57% di petrolio e +71% di gas rispetto a ciò che servirebbe per raggiungere il target del riscaldamento globale a un +1.5°C. Per produrre più carbone, più petrolio, più gas ci mettiamo anche un bel po’ di soldi: dall’inizio della pandemia i governi hanno già foraggiato queste industrie con circa 300 miliardi di dollari. Più di quanto investito in energia pulita.
Tra gli obiettivi del G20 e della COP26 c’è anche il rafforzamento della finanza green. Ciò cui ha portato fino a oggi, però, è tutt’altro che incoraggiante. Di fatto il capitale ha prodotto una mercificazione anche del clima: ogni Paese è autorizzato a inquinare per una certa quota e può comprare altre quote sul mercato internazionale, così che – di fatto – si produce semplicemente una monetizzazione dell’inquinamento. Come dimostra l’aumento delle emissioni di CO2 i prezzi devono essere stati fin troppo bassi. La soluzione verrà dunque da un aumento del prezzo delle quote? In realtà no, anche perché in molti hanno accumulato quote, comprandole quando erano molto molto economiche e si sono guadagnate così il “diritto” a inquinare.
Ciò che occorre è il coraggio della politica. Delle scelte audaci, che sappiano sfidare il potere delle industrie che più stanno distruggendo la nostra casa comune. Anziché pavoneggiarsi per successi inesistenti o incolpare la Cina, si potrebbe intraprendere per davvero una lotta al cambiamento climatico. Prendiamo il settore energetico. Vogliamo per davvero lasciarci l’energia fossile alle spalle? La buona notizia è che si può; la cattiva è che chi detiene le leve del potere non vuole.
Si può perché il passaggio dal fossile alle energie rinnovabili è fattibile tanto sotto il profilo tecnologico quanto finanziario. C’è bisogno di uno sforzo economico annuale per migliorare l’efficienza energetica di edifici, veicoli, trasporti, produzione industriale e per avere un’impennata nella produzione di fonti di energia pulita a emissioni zero entro il 2050. Ma chi conta su questo pianeta non vuole. Perché mai le multinazionali che dal fossile continuano a guadagnare miliardi su miliardi dovrebbero convincersi a farla finita e a passare ad energie pulite? Semplicemente non ne hanno interesse. E sono pronte a mobilitare gli stessi lavoratori contro una vera transizione ecologica, minacciando disoccupazione e miseria di massa, oltre che perdita di competitività nei confronti della cattiva Cina.
Ciò che serve è una pianificazione internazionale di questa benedetta transizione ecologica. Investimenti – una barca di soldi – in energia rinnovabile, agricoltura biologica (ma per davvero, non solo per apporre un’etichetta e alzare i prezzi), trasporti pubblici che sostituiscano le auto private. Così come serve un forte ruolo dello Stato per formare quei lavoratori oggi dipendenti – in senso formale e materiale – dall’industria del fossile e “riconvertirli” per impiegarli nella produzione di ciò di cui il nostro pianeta e la nostra gente necessita per davvero.
Ma tutto questo non accadrà fino a quando le multinazionali dell’energia continueranno a fare il bello e il cattivo tempo. Non basta lo Stato regolatore, serve uno Stato pianificatore: capace di prendere nelle proprie mani la direzione della transizione ecologica, smettendo di foraggiare produzioni inutili e dannose e facendo ogni possibile sforzo per orientare le nostre società verso quelle necessarie e pulite.