La lotta per l'emancipazione delle donne, gli aiuti ai Paesi in via di sviluppo da parte di quelli ricchi (e inquinatori), l'abbandono effettivo dei combustibili fossili. Ecco le richieste e le idee di giovani arrivati alla Cop26 da tutto il mondo

Sono donne e uomini davvero impegnati, tutti ancora giovani – alcuni minorenni – e molti di loro provengono dal sud globale. Così interessati al futuro del genere umano che si sono spinti a percorrere migliaia di chilometri per venire in Scozia, alla Cop26 di Glasgow, per ribadire ai leader del mondo e agli osservatori internazionali che così non va bene, che serve fare di più per il nostro pianeta. E che i bla bla bla non servono a nulla se si vuole davvero evitare una catastrofe climatica.

Stiamo parlando dei ragazzi di Fridays for future, il movimento globale nato nell’agosto 2018 ispirato dall’attivista svedese Greta Thunberg, solita passare i propri venerdì fuori dal Parlamento anziché a scuola, per incalzare i potenti ad affrontare la crisi ecologica e ambientale. Sono loro i “veri leader” secondo la giovane ambientalista con le trecce, al contrario di «politici e persone di potere che fingono di prendere sul serio il futuro e la presenza delle persone colpite già dalla crisi climatica».

In questi giorni i giovanissimi ecologisti si sono divisi tra le proteste ed il palazzo, tra i cortei colorati lungo le strade della città scozzese – arrivando a mobilitare nella sola giornata del 5 novembre circa 100mila persone – e i meeting istituzionali all’interno dello Scottish exhibition centre, la cittadella che ospita quello che è considerato uno dei più importanti vertici delle Nazioni Unite degli ultimi anni.
Pensare globale agire locale: Fridays for future è la declinazione concreta del celebre slogan che animava le piazze delle proteste dei No Global, tra la fine degli anni 90 e l’inizio degli anni 2000. Ne fanno parte persone con storie diverse, e provenienti da tutti e cinque i continenti. Le abbiamo sentite durante i giorni della conferenza di Glasgow.

Oladosu Adenike è un’attivista nigeriana che si definisce ecofemminista. Ha fondato un’associazione che si chiama I Lead Climate, un movimento che sensibilizza sui problemi indotti dai cambiamenti climatici nelle zone di conflitto e nella società africana.
Le aspettative dal vertice dell’Onu? «La Cop26 dovrebbe contribuire a fare in modo che le nostre idee abbiano più spazio: nel XXI secolo non possiamo più trascurare il fatto che i giovani debbano parlare con le persone, interagire, sedersi ai tavoli liberamente senza pressioni di nessun tipo» mi risponde la ventisettenne nigeriana. Che poi rilancia: le piacerebbe dalla conferenza anche un maggiore rispetto degli equilibri di genere e razza, anzi, senza alcuna forma di discriminazione.

Ma sono le donne il pallino della fondatrice di I Lead Climate. «È per questo che siamo a favore di un approccio sensibile alle questioni di genere nel mezzo di questa crisi climatica, ed è importante per noi che le donne abbiano accesso alla terra, all’istruzione, all’energia e ad altre risorse di base in modo che possano esercitare al 100% i loro diritti senza essere ostacolate dalla crisi climatica. Non è giusto che veniamo usate come strategia per la sopravvivenza o che siamo viste come un mero strumento di riproduzione».
E sul futuro del proprio continente, l’Africa? «Abbiamo bisogno di più azione, ci sono ancora molte ingiustizie in corso» ragiona Adenike, che ribadisce come il passaggio «dai combustibili fossili a un’economia più verde, ridurrebbe sicuramente la dipendenza dai Paesi industrializzati. Da cui, ricordo, stiamo attendendo ancora i famosi 100 miliardi di dollari all’anno».

Il riferimento è alla promessa che fece l’ex presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, al vertice di Copenaghen tenutosi nel lontano 2009. Ed è anche uno dei punti più controversi di questo evento, un nodo che secondo molti osservatori sarebbe stato sciolto in questi giorni. Ma di cui non si sa ancora nulla.
«Il mancato adempimenti di queste promesse» conclude molto arrabbiata l’attivista africana «sta mettendo a rischio il mio Paese e gli altri Paesi in via di sviluppo, tutti sottosviluppati. Come possiamo andare nella giusta direzione?».

Dello stesso avviso è anche Kevin Mtai, keniota e coordinatore del movimento Earth Uprising. Secondo Kevin, quei soldi promessi dall’ex inquilino della Casa Bianca sono necessari per adattare il Paese africano alle conseguenze nefaste dei cambiamenti climatici.
Kevin mi guarda, è stanco ed affaticato. Gli chiedo le aspettative da questo vertice. «Che fosse inclusivo, soprattutto con i più giovani e con chi viene dal Sud Globale, la parte del mondo più esposta ai cambiamenti climatici» mi dice. E aggiunge amareggiato che la Cop 26 inclusiva lo è stata. Ma non con chi voleva lui, bensì con gli esponenti del mondo dei combustibili fossili.

E non ha torto Kevin, visto che secondo i dati del think tank indipendente Global Witness, la delegazione più numerosa della Conferenza è stata quella dei lobbisti delle fossili – hanno contato circa 503 delegati delle industrie di carbone, petrolio e gas.
Un’altra notizia di peso è che l’India ha dichiarato che raggiungerà la neutralità climatica non nel 2050, come fortemente consigliato dalla comunità scientifica internazionale per contenere l’aumento delle temperature sotto i due gradi centigradi. Nemmeno nel 2060, come faranno Cina e Russia, bensì nel 2070.

Bhavreen Kandhari è un’attivista ambientalista indiana, proveniente da New Delhi. Chiedo a Bhavreen cosa ne pensa dalla decisione adottata dal governo di Narendra Modi.
«Sì, il 2070 è impossibile da immaginare perché nessuno di noi sarà lì né il primo ministro. Né lo sarò io e alcuni dei giovani come i miei figli, perché allora saranno nonni. Questa cosa è davvero ridicola. Come possiamo immaginare un mondo senza giovani sani e senza una giovinezza senza un’economia sana? Tutti hanno visto che queste azioni devono essere adottate ora. Sappiamo che tutti i limiti e alcune cose non sono così vicini. Sappiamo che nel nostro Paese si sono dati degli obiettivi ma non stiamo facendo abbastanza. Le leggi si fanno ma non si attuano. Siamo in una capitale più inquinate del mondo, e non c’è spazio per errori».

Bhavreen mi racconta poi la situazione della città dove abita, New Delhi. L’aria della capitale indiana è davvero molto inquinata: molte persone, soprattutto i bambini che abitano nella città, hanno i polmoni danneggiati in maniera irreversibile, e non possono essere curati. «Abbiamo una gestione scadente della raccolta dei rifiuti, un alto livello di emissioni e di polveri sottili, la città è un cantiere e le costruzioni la danneggiano ulteriormente. E i politici che fanno? Invece di prendere misure contro l’inquinamento tagliano 14mila alberi. Ma anziché sradicarli, non dovresti piantarli, gli alberi, visto che ci forniscono l’ossigeno di cui abbiamo bisogno?».

Forse uno dei pochi traguardi di questo vertice sul clima è un accordo siglato da diversi Paesi che prevede lo stop della deforestazione entro il 2030. Firmatario di questo patto è, incredibile ma vero, il Brasile presieduto dal negazionista climatico Jair Bolsonaro, che negli ultimi tempi ha fatto parlare molto di sé – la sua visita in Italia in occasione del G20 ha mostrato un Presidente isolato dalla comunità internazionale. Il leader del Paese più popoloso del Latinoamericana è stato denunciato alla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità in quanto responsabile della deforestazione accelerata dell’Amazzonia, causa di un aumento delle emissioni di CO2 su scala mondiale.

«Il Brasile ha firmato la scorsa settimana un accordo che ferma la deforestazione entro il 2030. Ma se guardiamo in faccia alla realtà, nel mio Paese c’è tanta deforestazione, tanta distruzione, tanto agrobusiness, e controllo delle terre indigene e di quelle locali!». Marina Guião la incontro nella zona sottostante l’enorme globo terrestre che troneggia nella hall del centro che ospita la Cop26: ha solo 17 anni ma è un vero e proprio fiume in piena: «Gli accordi che verranno adottati andranno poi attuati, e questo vale per la questione deforestazione come per altro. E vale anche per l’accordo finale che i leader sigleranno ai termini dei lavori: nella bozza che sta circolando, di sole tre pagine, non si nominano affatto i combustibili fossili. Tutti sappiamo che la causa principale dei cambiamenti climatici sono gli stessi combustibili fossili, che non vengono nominati nella dichiarazione finale!». Ma la giovanissima ambientalista brasiliana non risparmia nemmeno Bolsonaro, un «negazionista climatico che non guarda in faccia la realtà, che supporta il business as usual: non possiamo avere una persona così al comando della nazione che ha il più alto tasso di biodiversità di tutto il Pianeta! Vorrei qualcuno che rappresenti i giovani, magari un Partito verde, ma non l’emanazione dell’agrobusiness!».

Storie di persone diverse, accomunate dalla passione per l’ambiente e dalla volontà di voler dare il proprio contributo nella lotta contro i cambiamenti climatici. Sono scesi in campo per riparare ai danni compiuti dalle generazioni che li hanno preceduti e per aiutare quelle che devono ancora venire. Dopotutto, come ripete Gorbacev «Quando le generazioni future giudicheranno coloro che sono venuti prima di loro sulle questioni ambientali, potranno arrivare alla conclusione che questi “non sapevano”: accertiamoci di non passare alla storia come la generazione che sapeva, ma non si è preoccupata».

 

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