Ci sono oltre duemila anni di annullamento della realtà umana del bambino dietro la cultura che ancora oggi “giustifica” i crimini pedofili fino ad arrivare materialmente a proteggere - come nel caso della Chiesa - gli adulti violentatori. Ne parliamo con lo psichiatra e psicoterapeuta Andrea Masini

Quotidianamente, purtroppo, i media riportano uno stillicidio di casi di violenza sui minori: stupri, pedopornografia, tratta, sfruttamento, abusi di ogni genere. Tuttavia raramente la stampa si sofferma sulla ricerca delle cause, su cosa spinge un adulto a brutalizzare un bambino, sui tanti perché che sorgono spontanei di fronte a questo orrore. Un orrore che nel caso della pedofilia accade spesso in famiglia, come emerso nel recente agghiacciante caso della chat su Telegram in cui, stando a quel che si legge sui giornali, dei genitori si scambiavano immagini di violenze sui propri figli oltre che suggerimenti e dritte per non farsi scoprire dalle forze dell’ordine. Ma in Italia, come in tutti gli altri Paesi ancora a tradizione cattolica, la pedofilia e la pedopornografia sono profondamente radicate anche negli ambienti ecclesiastici.
Sia nel caso della pedofilia in ambiente familiare che di quella di matrice clericale, come hanno dimostrato studiosi come Eva Cantarella, la storia non è di oggi o degli ultimi decenni ma attraversa senza soluzione di continuità i tanti secoli che ci separano dagli albori della civiltà occidentale. Viene da chiedersi, allora, qual è la considerazione che si ha del bambino alle nostre latitudini ma anche se c’è un modo per tutelarlo da violenze indicibili e traumi che, come vedremo, sono devastanti. Per provare a orientarci abbiamo rivolto queste e altre domande allo psichiatra e psicoterapeuta Andrea Masini, direttore della rivista scientifica Il sogno della farfalla e docente della scuola di psicoterapia dinamica Bios Psiché.
«Il bambino nella nostra cultura è sempre stato considerato poco e male – precisa immediatamente Masini -. Per cui è sempre stato “visto” come un uomo che deve ancora realizzarsi. Nessuno ha mai riconosciuto al bambino la piena realizzazione della sua realtà umana fin dalla nascita e quindi durante tutta l’infanzia».
Dagli studi della storica Cantarella, ma non solo, abbiamo scoperto che le radici “culturali” di questa scarsa “considerazione” della realtà del bimbo affondano nel periodo della Grecia classica. Cosa ne pensa?
Nei confronti del mondo greco antico abbiamo certamente un grande debito di riconoscenza per averci fornito le basi del nostro sapere di uomini occidentali e razionali, ma non si può ignorare che dalla razionalità del pensiero di Platone, di Socrate e di Aristotele deriva, appunto, la pedofilia. A livello filosofico fu teorizzato che è molto più progredito l’amore per il fanciullo rispetto all’amore per la donna, considerata specie inferiore rispetto al maschio razionale. Così è nata la paideia, intesa come educazione del bambino, che comprendeva il rapporto “sessuale” con il maestro. Questa storia e queste dinamiche di sottomissione sono state poi riproposte e sempre negate per secoli fino ai giorni nostri. Basta vedere cosa è accaduto per esempio nella Chiesa francese o cosa accade oggi in Afghanistan ai bambini. Questo ci suggerisce che probabilmente nei secoli scorsi la pedofilia era una prassi totalmente annullata, non denunciata, come se non esistesse. E ci suggerisce anche che oggi stiamo facendo un salto in avanti poiché certi orrori inizino a essere scoperchiati.
Lo psichiatra Massimo Fagioli ha definito la pedofilia «l’annullamento della realtà umana del bambino».
Il lavoro che ha fatto Fagioli sull’immagine del bambino, ma anche della donna, è un rovesciamento culturale gigantesco. Oggi dobbiamo continuare a proporre cos’è questo annullamento, cioè il non riconoscere, non vedere la realtà umana del bambino, per far sì che venga in primis riconosciuto l’obbrobrio della storia del mondo greco. In Occidente non abbiamo mai voluto fare i conti con questo bagaglio culturale. Ed è accaduto che l’annullamento dell’identità del bambino perpetrato dalla filosofia platonica sia arrivato ai giorni nostri dopo essere stato ripreso a inizio Novecento da Freud con i suoi lavori sulla “sessualità” infantile.
Ci dica di più.
Utilizzando una serie di luoghi comuni della sua epoca, Freud formulò una vera e propria teoria della sessualità infantile che è arrivata ai giorni nostri così come lui l’ha proposta. Come fosse una scoperta, come fosse una cosa scientifica. Mentre non ci si rende conto che livello di annullamento sia parlare di sessualità infantile. I bambini non hanno sessualità. Non la devono e non la possono avere. Perché non hanno le competenze fisiche oltre che mentali, che si svilupperanno alla pubertà. È qui che comincia la sessualità.
Uno stupro, una violenza, può essere definito “atto sessuale”?
Assolutamente no. Anche qui dovremmo riuscire a chiarire i termini che – ripeto – ha chiarito solo Fagioli. Non si può mettere insieme violenza e sessualità. La parola sessualità implica l’assenza di qualunque violenza. La parola violenza esclude la possibilità che ci possa essere qualche dinamica di tipo sessuale. Ma nel nostro pensiero comune le due parole vengono associate. “Violenza sessuale”. Sono due termini totalmente inconciliabili. La violenza è violenza. Per anni è sembrato che l’aggiunta della parola “sessualità” volesse in parte mistificarla. Ci sono state sentenze in cui la donna vittima è stata considerata complice della violenza subita perché avrebbe indotto l’uomo a comportamenti violenti tramite la sessualità. Ma questo è un pasticcio teorico inaccettabile. Se c’è violenza non c’è sessualità. Se c’è sessualità non ci può essere violenza.
“È il bimbo che mi ha provocato”. Tante volte, non solo attraverso le nostre inchiesta su Left, è emerso che dichiarazioni del genere sono state fatte da sacerdoti pedofili. La donna e il bambino descritti dall’uomo come istigatori. Come possiamo commentare?
La donna e il bambino violentati, ritenuti responsabili della violenza contro se stessi: è un pensiero orrendo. E nei confronti del bimbo lo è ancor di più perché – come detto – nel bambino non c’è sessualità. Quindi non ci può mai essere alcuna istigazione. Invece questa idea è presente anche nella cultura del Novecento francese, nell’esistenzialismo. Foucault e altri hanno proposto dinamiche di questo tipo. Ma sono inaccettabili dal punto di vista teorico, psichiatrico e anche culturale.
Una persona che ha subito uno stupro in età prepubere, cosa si trova a dover affrontare?
Ogni vittima ovviamente nel corso della vita farà appello a tutte le proprie risorse psicologiche per superare il trauma. Ma noi psichiatri valutiamo che le conseguenze sono devastanti. Perché c’è un’impossibilità per il bambino di gestire, di reggere questo tipo di violenza che non è solo fisica. Peraltro quando un bambino è vittima di un’aggressione fisica diretta questa viene compresa ed elaborata più facilmente – anche perché c’è l’appoggio e la difesa del mondo circostante (genitori, familiari etc). L’aggressione di un pedofilo, invece, come dicevamo, è sempre stata sottovalutata dalla società. Quindi da una parte il bimbo rischia di confondersi e dall’altra spesso manca il sostegno stesso delle persone che gli stanno vicino. Più volte mi è capitato di sentirmi raccontare con grande sofferenza la violenza subita da uno zio o da un parroco tanti anni prima. Dietro l’atto c’è una violenza psicologica che provoca danni profondissimi. Che non sono solo quelli di bloccare la sessualità.
Come si può intervenire?
Si può intervenire solo a livello psichiatrico e psicoterapico. Pensiamo solo alla confusione che una violenza determina sulla formazione dell’identità. «Chi sono io? Sono attratto da un adulto del mio sesso o del sesso opposto?» si “chiede” la vittima.
Uno studio realizzato dalla Commissione australiana d’inchiesta sugli abusi nazionali di matrice clericale, conferma quello che dice lei. Da un campione di 4.445 persone è emerso che sono passati in media 33 anni prima che le vittime riuscissero a parlare della violenza subita.
Perché così tanto tempo?
È il tempo che occorre a una persona per acquisire – nonostante il trauma – una propria solidità. Quella necessaria per poter riaffrontare il racconto e le reazioni della gente di fronte alla sua denuncia. Questo, ma in maniera più grave, è molto simile alla violenza “sessuale” che subiscono le donne. C’è tutto quel connubio di vergogna, di paura, sensi di colpa che rendono molto complicato riuscire a denunciare, a raccontare, a condividere con qualcuno.
Anche con i genitori?
Purtroppo sì. I bambini molto spesso non vengono creduti, se non addirittura colpevolizzati. Oggi si comincia per la prima volta a sentire di rari ed eccezionali casi in cui la madre si scontra con il padre, accetta la volontà del figlio e si va a scontrare con il parroco presunto violentatore. I casi che vengono denunciati hanno quasi sempre questa dinamica ma non sono certo la maggioranza. Purtroppo si tratta di un’esigua minoranza di persone che hanno una certa sensibilità. La maggioranza tende a colpevolizzare il bambino, a nasconderlo, a non vedere la realtà, a negarla.
Chi è il pedofilo?
Il pedofilo ha una patologia psichiatrica gravissima che però può essere “compresa” in senso scientifico come un disturbo di personalità, tipo psicopatia. I pedofili sono degli psicopatici, sono dei malati che mettono insieme una grave malattia e una lucidità di comportamento propria dei criminali. E con lucidità scelgono le vittime, consapevoli del reato che compiono e dei rischi che possono correre. Nell’Ottocento li chiamavano “criminali nati” ma oggi sappiamo che psicopatici si diventa, non ci si nasce. A volte, nel caso dei pedofili, sono delle persone abusate a loro volta da bambini. In loro c’è una catena di malattia, di dolore e di delinquenza molto marcate. Trent’anni fa ci fu il caso piuttosto noto di Luigi Chiatti. Lui da bambino era stato abusato e adottato, e uccise due bambini. Prima però tentò di violentarli ma anche di convincerli a una relazione. Un misto di psicosi, delirio e lucida delinquenza. È stato un caso molto paradigmatico, molto studiato. Aveva il delirio di voler costruire una comunità di bambini prendendoli alle loro famiglie e portandoli a vivere tutti insieme. Una cosa che non sta né in cielo né in terra ovviamente.
Leggendo i Rapporti investigativi sulla pedofilia nel clero, viene da dire che spesso ai sacerdoti pedofili la comunità di bambini da gestire è stata messa su un piatto d’argento…
Anche loro hanno deliri di questo genere: ricostruire delle comunità in cui stanno con i bambini. È chiaro inoltre che i numeri impressionanti emersi in Francia di recente – ma era già accaduto in Germania, Usa e altrove – dimostrano che ci deve essere un legame tra la diffusione della pedofilia nel clero e la cultura della Chiesa, la sua organizzazione, la formazione impartita ai sacerdoti. Ci dev’essere un nesso altrimenti non si spiegano questi numeri mostruosi.
Le gerarchie ecclesiastiche hanno sempre detto che si tratta di casi isolati. Aiutati in questo, specie in Italia, dal modo in cui i media trattano queste vicende, spesso relegate nelle pagine di cronaca locale e mai contestualizzate fino in fondo.
Ma no! Si tratta di una prassi criminale diffusa che evidentemente si lega in qualche modo alla cultura cattolica e all’organizzazione della Chiesa cattolica.
Difatti, solo per fare un esempio numerico, il recente rapporto francese parla di circa 3mila preti coinvolti e 210mila vittime: cioè per ogni pedofilo, settanta bambini violentati.
Per me questo è l’aspetto criminale della malattia mentale. La serialità sottolinea drammaticamente l’aspetto criminale. Non riescono a fermarsi. O li ferma la magistratura o non riescono a fermarsi. In questo misto di criminalità e di patologia. Loro hanno perduto l’infanzia. In questo modo criminale vorrebbero ricostruire un rapporto con l’infanzia che hanno perduto. È una dinamica violentissima. Così come lo stupratore delle donne vorrebbe creare un rapporto con le donne ma lo fa in un modo violentissimo e criminale.
A proposito di “cultura” religiosa, ancora oggi lo stupro subito da un bambino, per la Chiesa, dal papa in giù, è considerato ed è trattato innanzitutto come un peccato.
Qui c’è tutta la cecità del pensiero religioso nei confronti del bambino. Difficile stabilire quanto questa idea di “peccato” venga utilizzata appositamente da parte della Chiesa per mistificare e nascondere il gigantesco problema al suo interno. È possibile che i vertici siano consapevoli che la pedofilia rischi di travolgere definitivamente l’istituzione, intaccando irrimediabilmente la fiducia della gente. Quindi la confusione tra “peccato”, cioè delitto contro la morale, e crimine contro una persona inerme può essere frutto di una strategia lucida e fredda per tutelarsi. Ma dall’altra parte testimonia l’incapacità del pensiero religioso di vedere il bambino, che come la donna non esiste. La religione, quella monoteista in particolare, vede solo il maschio adulto. E questo ha delle ricadute importanti, appunto, anche sulla formazione dei preti che vengono addestrati a muoversi in mondo totalmente maschile, dove esistono solo uomini. È una mostruosità, è contro la natura umana.
Ritorniamo, in conclusione, a parlare delle vittime di una violenza subita da bambini. Spesso vengono loro diagnosticate una sindrome acuta post traumatica da stress e amnesia traumatica. Ce ne può parlare?
La psichiatria deve fare ancora tanta strada per capire la patologia mentale in generale ma queste in particolare. Però entrambe le definizioni possono essere utilizzate per aiutare a comprendere. La sindrome post traumatica da stress suona come una cosa lieve ma è una diagnosi che può essere utilizzata per le vittime dei campi di concentramento che, come ha raccontato Primo Levi, portano dei segni profondissimi per tutta la vita.
Lo stress quindi può essere più o meno grave?
Certamente. Per farsi un’idea queste sono diagnosi che si usano per le persone vittime di terremoti, guerre ed emigrazione forzata. E questo può aiutarci a capire cosa vive la vittima di uno stupro pedofilo. Aggiungerei che il dramma e lo stress della persona che ha dovuto affrontare un lager o un terremoto vengono compresi dal mondo circostante. Mentre per quanto riguarda le vittime di un pedofilo c’è tutto quell’equivoco di cui si parlava all’inizio che rende maggiore la loro sofferenza.
Cosa si intende invece per amnesia traumatica?
Si tratta di una dinamica che anche io ho riscontrato nelle vittime. “Comincio a ricordare di mio zio” mi sono sentito dire. Ma per anni lo avevano dimenticato. La nostra mente ha questo potentissimo meccanismo di difesa che consiste nel cercare di “dimenticare” ciò che ha fatto star male. E questo spiega anche perché prima che una persona riesca a ricordare, a prendere consapevolezza, a rimettere a fuoco quello che è successo ci vogliono anni. Accade anche in chi ha subito una guerra o vissuto un lager. Cercano di dimenticare. Ben diversa è la dinamica dell’annullamento nella quale c’è una completa sparizione del fatto ma soprattutto si realizza una dinamica di anaffettività che di solito non è quella implicata in un processo traumatico. Il punto sta proprio nel “dimenticare” – non c’è un’altra parola – quello che è stato il trauma. Poi, dove le condizioni lo consentono, a poco a poco riemerge. E siccome per anni è rimasto nell’inconscio, deve riemergere dall’inconscio.


L’intervista èstata pubblicata su Left del 10-16 dicembre 2021

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SOMMARIO

Scrivevo già per Avvenimenti ma sono diventato giornalista nel momento in cui è nato Left e da allora non l'ho mai mollato. Ho avuto anche la fortuna di pubblicare articoli e inchieste su altri periodici tra cui "MicroMega", "Critica liberale", "Sette", il settimanale uruguaiano "Brecha" e "Latinoamerica", la rivista di Gianni Minà. Nel web sono stato condirettore di Cronache Laiche e firmo un blog su MicroMega. Ad oggi ho pubblicato tre libri con L'Asino d'oro edizioni: Chiesa e pedofilia. Non lasciate che i pargoli vadano a loro (2010), Chiesa e pedofilia, il caso italiano (2014) e Figli rubati. L'Italia, la Chiesa e i desaparecidos (2015); e uno con Chiarelettere, insieme a Emanuela Provera: Giustizia divina (2018).