Una nuova collana curata da Vittorino Andreoli per Repubblica torna a riproporre l’idea infondata che la genialità sia indissolubilmente legata alla pazzia. In realtà, la creatività del genio nasce dalla capacità di attingere all’irrazionale sano, alla fantasia e vitalità del primo anno di vita

Pazzia e genialità: due parole il cui accostamento sembra ormai diventato cosa ovvia, risaputa. In molti libri, mostre, film, articoli di giornale viene riproposto questo antico legame, un abbinamento che è garanzia di sicuro effetto. Ma come nasce questo collegamento? Ed è vero che pazzia e genialità non possono esistere l’una senza l’altra? Sono passati cento anni da quando uno psichiatra svizzero di nome Walter Morgenthaler pubblicò nel 1921 un libro dal titolo Arte e follia in Adolf Wolfli. Ogni lunedì mattina Wolfli, malato rinchiuso per più di 35 anni nel manicomio di Waldau vicino Berna, riceve una matita e due grossi rotoli di carta di giornale. Con questi mezzi, come guidato da un irrefrenabile impulso a disegnare, produrrà una sterminata collezione di disegni in cui Morgenthaler intravedeva i segni precursori del cubismo di Picasso.

Solo un anno dopo Karl Jaspers, filosofo e psichiatra tedesco, nel suo celebre libro Genio e follia, scriverà che così come la perla nasce dal difetto della conchiglia allo stesso modo la schizofrenia può produrre opere di incomparabile bellezza: la malattia non determinerebbe in maniera diretta la creatività ma potrebbe liberare, in coloro che sono dotati di talento, forze che altrimenti sarebbero rimaste sconosciute. Frase apparentemente ad effetto che sembra in qualche modo ribaltare quella concezione puramente organicista dei primi del Novecento che attribuiva alla malattia una funzione negativa equiparabile a una demenza e i cui portatori erano rinchiusi nei manicomi relegati ai margini della società. La follia del genio romantico ottocentesco, che da solo sfidava il senso comune e le norme convenzionali, veniva assimilata alla solitudine autistica del malato, la sperimentazione del nuovo linguaggio artistico anticlassico del manierismo cinquecentesco, accostata al manierismo psicopatologico dello schizofrenico.

Così però, come la perla che nasce dalla conchiglia nasconde il difetto che l’ha creata, anche l’idea di Jaspers cela un inganno. Sia la creatività dell’artista che la produttività dello schizofrenico hanno in comune la rottura e la ribellione a schemi e regole convenzionali. In virtù di questa similitudine diventava possibile assimilare il geometrismo astratto di Wolfli con il cubismo di Picasso. Quello che produce la patologia è solo un cambiamento delle strutture e delle regole formali. Le forze disgregatrici della malattia costringono alcuni malati a un tentativo estremo di trovare un nuovo senso alle proprie esperienze stabilendo legami inusuali e bizzarri fino alla creazione di parole nuove (neologismi) o nuove modalità raffigurative. Tale produzione però non è dovuta al ricorso a un pensiero irrazionale ma al contrario al frutto di una iperiflessività: una perdita di spontaneità che conduce a…

Nella foto: Vincent van Gogh, A pair of boots, 1887


L’articolo prosegue su Left del 10-16 dicembre 2021

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