È il narratore di una Italia attraversata dalla crisi economica, dalla furia dei terremoti e dall’abbandono delle istituzioni. «Scrivo perché queste cose non si dimentichino», dice lo scrittore e giornalista marchigiano. Come ha fatto su Bertolaso nel libro “Nostro signore dell’emergenza”

Mario Di Vito, giovanissimo reporter e cronista marchigiano, è uno dei pochi che in questi anni hanno raccontato l’Italia centrale e la provincia vera, quella dei piccoli paesi e dalle mille contraddizioni. Lo ha fatto dalle pagine del Manifesto con il piglio dell’osservatore militante, la capacità espressiva del cronista di razza, ma anche con i mezzi del narratore (è anche autore di romanzi gialli come Il male minore, per Affinità Elettive, Dieci minuti alla mezzanotte, Fila 37). Nei suoi libri ibridi mescola con grande abilità i fatti giornalistici con l’inchiesta, l’affresco politico-sociale con il racconto tout court degli ambienti di un’Italia nascosta, minore, quella umbra, marchigiana, abruzzese, un tempo culla del benessere diffuso e della cultura progressista, oggi investita da una profonda crisi economica e di valori.

Mario Di Vito, hai iniziato il tuo lavoro sul campo al Manifesto proprio raccontando il terremoto dell’Italia centrale, una serie di reportage che poi sono diventati Dopo. Storie da un terremoto negato (Poiesis Editrice). Che rappresentazioni sociali, politiche, culturali si sono sviluppate in quel microcosmo?
A distanza di cinque anni da quelle scosse che hanno cambiato forse per sempre la storia e la geografia dell’Italia centrale, possiamo dire che i terremotati sono gli unici che continuano a resistere alla cosiddetta strategia dell’abbandono, ovvero a quella serie di pratiche che mirano allo svuotamento dell’Appennino per farne un parco giochi per turisti. Contro molte previsioni, le persone che vivevano in quelle zone prima del sisma vorrebbero tornarci e sono pochissimi quelli che hanno, pur legittimamente, scelto di cambiare vita e città: la crescita delle domande di ricostruzione degli immobili dice soprattutto questo. Chi conosce gli abitanti dell’Appennino non ha mai avuto dubbi sulla loro, diciamo, vocazione resistenziale. Naturalmente le forze sono quelle che sono: si tratta, a conti fatti, di poche decine di migliaia di cittadini che interessano poco ai media mainstream e, soprattutto, alla politica, perché non rappresentano un grande bacino elettorale. Va detto, poi, che chi ci ha messo le mani, la destra, ha usato i terremotati come clava propagandistica, paragonando le loro condizioni a quelle dei migranti, giocando a mettere gli ultimi contro i penultimi. Il problema è che il discorso ha funzionato negli anni passati e il clima si è avvelenato: vediamo paesi confinanti che si fanno la guerra per poco o per niente, invidie, manie di protagonismo, opportunisti che hanno usato il terremoto per fare carriera e candidarsi qua e là. Io ho cercato di lavorare su queste storie in maniera diversa, provando a rispettarne la complessità e pure le contraddizioni. In fondo il reportage, il lavoro sul campo, è…


L’articolo prosegue su Left del 24 dicembre – 6 gennaio 2022

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