Nell’anno appena passato, sembra che anche la Cina sia andata via. Anche solo durante il 2020, l’anno della pandemia che sarebbe originata proprio a Wuhan in Cina, forse per la storia dei primi pazienti Covid-19 amorevolmente curati allo Spallanzani di Roma, forse per le mascherine di ogni genere e colore che arrivavano da quel Paese, la percezione dell’Europa e più in generale dell’Occidente rispetto alla Cina era ancora - potremmo dire - tiepida. A volte si alzavano voci discordanti, ma complessivamente la nostra opinione pubblica aveva ancora un atteggiamento di curiosità nei confronti di quel grande Paese. Eravamo verso la fine di quel lungo periodo, che potremmo far iniziare con le Olimpiadi di Pechino del 2008, in cui la Cina era stata da noi ammirata per il suo attivismo commerciale, la sua capacità di riscatto e di sviluppo, che stava facendo uscire dall’indigenza milioni di persone. Fra Europa, Italia e Cina, le visite a livello politico si susseguivano, sembrava essersi creato un clima di reciproca collaborazione e rispetto, che spingeva verso una progressiva integrazione fra i nostri mondi.
Il Covid-19 e la definitiva affermazione dell’attuale dirigenza cinese, identificata con il suo presidente Xi Jinping, hanno prodotto un cambiamento radicale. La Cina è diventata il nostro principale nemico. Negli Stati Uniti, in campo commerciale, il passaggio dalla collaborazione al confronto era già iniziato negli anni di Trump, ma si aveva la sensazione che si trattasse solo di ricalibrare il rapporto commerciale fra le due maggiori economie del pianeta e si sarebbe potuto andare avanti. Con l’arrivo di Biden - “solo” undici mesi fa! - i rapporti si sono deteriorati in maniera inimmaginabile. La Cina è iniziata a precipitare agli occhi dell’opinione pubblica occidentale, avviandosi a diventare il nuovo “impero del male”.
Un ulteriore punto di svolta è stato il frettoloso ritiro americano dall’Afghanistan nell’agosto scorso, che ha ulteriormente spostato l’attenzione dell’opinione pubblica verso la sponda asiatica del Pacifico. Durante la seconda metà dell’anno, il nostro sguardo si è iniziato a focalizzare su una serie di problematiche, che in realtà erano presenti da anni, a volte da decenni, ma che raramente erano arrivate sui nostri giornali: la maggioranza musulmana in Xinjiang, estrema regione occidentale della Repubblica popolare cinese (Rpc), progressivamente divenuta minoranza in ragione di un forte incremento migratorio interno di cinesi Han; il problema delle isole nel Pacifico meridionale, contese da quasi tutti i Paesi circostanti e assertivamente occupate dalla Rpc; le manifestazioni anticomuniste ad Hong Kong, progressivamente cessate, senza spargimento di sangue, ma che hanno portato per la prima volta dopo due secoli quei territori sotto il controllo di Pechino; infine, la questione di Taiwan considerata dall’Onu e da tutti i Paesi occidentali una «parte inalienabile del territorio della Repubblica popolare cinese» come recitano tutti i trattati di mutuo riconoscimento diplomatico fra la Cina e gli altri Paesi, compresa l’Italia (6 novembre 1970).
Proprio queste ultime due questioni hanno maggiormente contribuito al cambiamento della nostra immagine della Cina. Tuttavia, ad Hong Kong, effettivamente, il desiderio di porre fine ai moti indipendentisti ha prodotto un radicale cambiamento del suo sistema politico che, nel 1997 era passato da un ferreo regime coloniale britannico ad un timido sistema democratico, sapientemente definito da Deng Xiaoping: «Un Paese (la Cina), due sistemi». Oggi tutto questo sembra ormai passato e Pechino controlla Hong Kong in modo diretto e inflessibile, senza alcuna possibile mediazione. Il caso più lampante di questa guerra mediatica, che si spera resti tale, è Taiwan. Quest’isola negli ultimi cinquant’anni è stata da tutto il mondo considerata cinese a tutti gli effetti. Nessun Paese ne ha riconosciuto l’indipendenza, e tanto bastava a Pechino, ma al tempo stesso tutte le nazioni, compresa l’Italia vi hanno mantenuto un loro rappresentante, funzionario del ministero degli Esteri, che curava gli interessi nazionali, come accade in tutti i Paesi in cui abbiamo una rappresentanza diplomatica. Pechino, da parte sua, pur non avendo mai escluso l’opzione militare, ha sempre preferito che gli ingenti capitali dell’isola si riversassero nelle fabbriche della Cina meridionale, cosicché fosse sempre più attirata nell’orbita commerciale della Rpc.
Nel 2021 Taiwan si è trovata al centro del confronto fra Washington e Pechino al punto che solo il colloquio telefonico avuto fra i due presidenti Biden e Xi, a novembre scorso, avrebbe confermato che la terza guerra mondiale non sarebbe scoppiata nello stretto di Taiwan. La questione dell’isola è indubbiamente complessa: una democrazia parlamentare, con una florida economia tecnologica che pur sentendosi etnicamente cinese, è combattuta fra spinte indipendentiste e nostalgie cinesi; una crisi identitaria che solo il tempo permetterà di sanare, non certo un confronto militare fra superpotenze.
L’inasprimento delle relazioni fra gli Usa e la Cina ha avuto anche altri effetti. In modo quasi innaturale per la loro storia recente, Pechino si è avvicinata a Mosca come non accadeva da quasi un secolo: all’apertura dei Giochi olimpici invernali il 4 febbraio prossimo, Putin sarà il primo capo di stato straniero ad incontrare il presidente Xi (che non viaggia all’estero da oltre un anno). La vicinanza con Mosca sta inoltre creando non pochi problemi all’Europa, che rischia di perdere il ruolo di mediatrice fra le tre superpotenze, che l’accorta politica estera della Cancelliera Angela Merkel le aveva costruito.
Ma la vera novità del 2021 è stata il diverso approccio della Cina contro il Covid-19. In Europa prima, e negli Stati Uniti poi, grazie alla diffusione dei vaccini si è progressivamente imposta una strategia di convivenza con il virus, fatta di richiami e tracciamenti. In Cina, invece, a fronte di una ugualmente massiccia campagna vaccinale, ma con vaccini tradizionali e quindi, sembra, meno protettivi, è stata imposta la strategia del confinamento ferreo. È di questi giorni il caso di Xi’an, la città dei guerrieri di terracotta, dove a fronte di una decina di casi, si è proceduto al confinamento e allo screening per circa 13 milioni di persone. Solo il tempo ci saprà dire quale di queste due strategie avrà dato migliori risultati, in termini di protezione della salute pubblica. Forse ci accorgeremo che entrambe sono valide in ragione di contesti demografici, politici e sociali differenti. Confinare 13 milioni di persone sarebbe impossibile in un Paese europeo, perché non permetterebbe di garantire i servizi essenziali, mentre in Cina è possibile perché intorno ad una decina di milioni di abitanti, ve ne sono oltre un miliardo. Paesi diversi, sistemi diversi.
Sembra che il 2021 sia stato l’anno in cui il presidente cinese abbia voluto riaffermare la diversità della Cina. La guerra alle concentrazioni economiche, come Alibaba il più grande gruppo di e-commerce cinese, la crisi immobiliare Evergrande, che poteva essere il caso Lehman Brothers cinese ed invece sembra sia stata arginata; ed ancora l’enorme impegno per la creazione di infrastrutture commerciali all’estero, soprattutto ferrovie, che consentono una migliore penetrazione dei propri prodotti fuori dai propri confini, con il programma Belt and road.
Nel 2022, il presidente Xi sarà confermato per un altro mandato, in autunno al XX Congresso del Pcc, avviandosi a diventare il più longevo presidente cinese, dopo Mao; ma sarà anche l’anno in cui egli dovrà forse affrontare il primo vero raffreddamento dell’economia, dalla fine degli anni Settanta. Staremo a vedere. In attesa dell’anno che verrà, qualunque giudizio vogliamo dare di questo 2021, se vogliamo sperare di scongiurare i venti di guerra che si sono spostati dall’Afghanistan all’Asia orientale, è assolutamente indispensabile provare a guardare il mondo anche con gli occhi degli altri, smettendo di pensare che esista un solo mondo possibile, che deve andare bene per tutti.
L'autore: Il sinologo Federico Masini è docente di Lingua e Letteratura cinese all’Università La Sapienza di Roma
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L'editoriale è tratto da Left del 7-13 gennaio 2022
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Nell’anno appena passato, sembra che anche la Cina sia andata via. Anche solo durante il 2020, l’anno della pandemia che sarebbe originata proprio a Wuhan in Cina, forse per la storia dei primi pazienti Covid-19 amorevolmente curati allo Spallanzani di Roma, forse per le mascherine di ogni genere e colore che arrivavano da quel Paese, la percezione dell’Europa e più in generale dell’Occidente rispetto alla Cina era ancora – potremmo dire – tiepida. A volte si alzavano voci discordanti, ma complessivamente la nostra opinione pubblica aveva ancora un atteggiamento di curiosità nei confronti di quel grande Paese. Eravamo verso la fine di quel lungo periodo, che potremmo far iniziare con le Olimpiadi di Pechino del 2008, in cui la Cina era stata da noi ammirata per il suo attivismo commerciale, la sua capacità di riscatto e di sviluppo, che stava facendo uscire dall’indigenza milioni di persone. Fra Europa, Italia e Cina, le visite a livello politico si susseguivano, sembrava essersi creato un clima di reciproca collaborazione e rispetto, che spingeva verso una progressiva integrazione fra i nostri mondi.
Il Covid-19 e la definitiva affermazione dell’attuale dirigenza cinese, identificata con il suo presidente Xi Jinping, hanno prodotto un cambiamento radicale. La Cina è diventata il nostro principale nemico. Negli Stati Uniti, in campo commerciale, il passaggio dalla collaborazione al confronto era già iniziato negli anni di Trump, ma si aveva la sensazione che si trattasse solo di ricalibrare il rapporto commerciale fra le due maggiori economie del pianeta e si sarebbe potuto andare avanti. Con l’arrivo di Biden – “solo” undici mesi fa! – i rapporti si sono deteriorati in maniera inimmaginabile. La Cina è iniziata a precipitare agli occhi dell’opinione pubblica occidentale, avviandosi a diventare il nuovo “impero del male”.
Un ulteriore punto di svolta è stato il frettoloso ritiro americano dall’Afghanistan nell’agosto scorso, che ha ulteriormente spostato l’attenzione dell’opinione pubblica verso la sponda asiatica del Pacifico. Durante la seconda metà dell’anno, il nostro sguardo si è iniziato a focalizzare su una serie di problematiche, che in realtà erano presenti da anni, a volte da decenni, ma che raramente erano arrivate sui nostri giornali: la maggioranza musulmana in Xinjiang, estrema regione occidentale della Repubblica popolare cinese (Rpc), progressivamente divenuta minoranza in ragione di un forte incremento migratorio interno di cinesi Han; il problema delle isole nel Pacifico meridionale, contese da quasi tutti i Paesi circostanti e assertivamente occupate dalla Rpc; le manifestazioni anticomuniste ad Hong Kong, progressivamente cessate, senza spargimento di sangue, ma che hanno portato per la prima volta dopo due secoli quei territori sotto il controllo di Pechino; infine, la questione di Taiwan considerata dall’Onu e da tutti i Paesi occidentali una «parte inalienabile del territorio della Repubblica popolare cinese» come recitano tutti i trattati di mutuo riconoscimento diplomatico fra la Cina e gli altri Paesi, compresa l’Italia (6 novembre 1970).
Proprio queste ultime due questioni hanno maggiormente contribuito al cambiamento della nostra immagine della Cina. Tuttavia, ad Hong Kong, effettivamente, il desiderio di porre fine ai moti indipendentisti ha prodotto un radicale cambiamento del suo sistema politico che, nel 1997 era passato da un ferreo regime coloniale britannico ad un timido sistema democratico, sapientemente definito da Deng Xiaoping: «Un Paese (la Cina), due sistemi». Oggi tutto questo sembra ormai passato e Pechino controlla Hong Kong in modo diretto e inflessibile, senza alcuna possibile mediazione. Il caso più lampante di questa guerra mediatica, che si spera resti tale, è Taiwan. Quest’isola negli ultimi cinquant’anni è stata da tutto il mondo considerata cinese a tutti gli effetti. Nessun Paese ne ha riconosciuto l’indipendenza, e tanto bastava a Pechino, ma al tempo stesso tutte le nazioni, compresa l’Italia vi hanno mantenuto un loro rappresentante, funzionario del ministero degli Esteri, che curava gli interessi nazionali, come accade in tutti i Paesi in cui abbiamo una rappresentanza diplomatica. Pechino, da parte sua, pur non avendo mai escluso l’opzione militare, ha sempre preferito che gli ingenti capitali dell’isola si riversassero nelle fabbriche della Cina meridionale, cosicché fosse sempre più attirata nell’orbita commerciale della Rpc.
Nel 2021 Taiwan si è trovata al centro del confronto fra Washington e Pechino al punto che solo il colloquio telefonico avuto fra i due presidenti Biden e Xi, a novembre scorso, avrebbe confermato che la terza guerra mondiale non sarebbe scoppiata nello stretto di Taiwan. La questione dell’isola è indubbiamente complessa: una democrazia parlamentare, con una florida economia tecnologica che pur sentendosi etnicamente cinese, è combattuta fra spinte indipendentiste e nostalgie cinesi; una crisi identitaria che solo il tempo permetterà di sanare, non certo un confronto militare fra superpotenze.
L’inasprimento delle relazioni fra gli Usa e la Cina ha avuto anche altri effetti. In modo quasi innaturale per la loro storia recente, Pechino si è avvicinata a Mosca come non accadeva da quasi un secolo: all’apertura dei Giochi olimpici invernali il 4 febbraio prossimo, Putin sarà il primo capo di stato straniero ad incontrare il presidente Xi (che non viaggia all’estero da oltre un anno). La vicinanza con Mosca sta inoltre creando non pochi problemi all’Europa, che rischia di perdere il ruolo di mediatrice fra le tre superpotenze, che l’accorta politica estera della Cancelliera Angela Merkel le aveva costruito.
Ma la vera novità del 2021 è stata il diverso approccio della Cina contro il Covid-19. In Europa prima, e negli Stati Uniti poi, grazie alla diffusione dei vaccini si è progressivamente imposta una strategia di convivenza con il virus, fatta di richiami e tracciamenti. In Cina, invece, a fronte di una ugualmente massiccia campagna vaccinale, ma con vaccini tradizionali e quindi, sembra, meno protettivi, è stata imposta la strategia del confinamento ferreo. È di questi giorni il caso di Xi’an, la città dei guerrieri di terracotta, dove a fronte di una decina di casi, si è proceduto al confinamento e allo screening per circa 13 milioni di persone. Solo il tempo ci saprà dire quale di queste due strategie avrà dato migliori risultati, in termini di protezione della salute pubblica. Forse ci accorgeremo che entrambe sono valide in ragione di contesti demografici, politici e sociali differenti. Confinare 13 milioni di persone sarebbe impossibile in un Paese europeo, perché non permetterebbe di garantire i servizi essenziali, mentre in Cina è possibile perché intorno ad una decina di milioni di abitanti, ve ne sono oltre un miliardo. Paesi diversi, sistemi diversi.
Sembra che il 2021 sia stato l’anno in cui il presidente cinese abbia voluto riaffermare la diversità della Cina. La guerra alle concentrazioni economiche, come Alibaba il più grande gruppo di e-commerce cinese, la crisi immobiliare Evergrande, che poteva essere il caso Lehman Brothers cinese ed invece sembra sia stata arginata; ed ancora l’enorme impegno per la creazione di infrastrutture commerciali all’estero, soprattutto ferrovie, che consentono una migliore penetrazione dei propri prodotti fuori dai propri confini, con il programma Belt and road.
Nel 2022, il presidente Xi sarà confermato per un altro mandato, in autunno al XX Congresso del Pcc, avviandosi a diventare il più longevo presidente cinese, dopo Mao; ma sarà anche l’anno in cui egli dovrà forse affrontare il primo vero raffreddamento dell’economia, dalla fine degli anni Settanta. Staremo a vedere. In attesa dell’anno che verrà, qualunque giudizio vogliamo dare di questo 2021, se vogliamo sperare di scongiurare i venti di guerra che si sono spostati dall’Afghanistan all’Asia orientale, è assolutamente indispensabile provare a guardare il mondo anche con gli occhi degli altri, smettendo di pensare che esista un solo mondo possibile, che deve andare bene per tutti.
L’autore: Il sinologo Federico Masini è docente di Lingua e Letteratura cinese all’Università La Sapienza di Roma