Con Draghi al Quirinale e un suo braccio destro a Palazzo Chigi cadremmo in un semipresidenzialismo de facto. Il che sarebbe peggio di un vero presidenzialismo. Perché scomparirebbero meccanismi di controllo e bilanciamento dei poteri

Le solite autorevoli voci romane, confermano l’ipotesi di Draghi presidente della Repubblica e un suo ministro solo formalmente presidente del Consiglio. Un’eventualità mai smentita dall’attuale premier, e anzi avallata tra le righe durante la tradizionale conferenza stampa di fine anno. Ciò significherebbe che il manico del mestolo sarà sempre di Draghi, che ci garantisce nei confronti dell’Europa e dei mercati finanziari. L’accentuazione del ruolo del capo dello Stato ne uscirebbe, dunque, rafforzata. E stiamo parlando di una carica che, già negli scorsi anni, ha indirizzato la vita politica italiana in vari passaggi decisivi per il Paese.
Napolitano ha autorizzato Renzi a presentare al Parlamento il suo progetto di deforma costituzionale dell’8 aprile 2014: un fatto grave, poteva suggerire che lo presentassero i capigruppo dei partiti di maggioranza e prima aveva “imposto” Monti al Parlamento e poi Letta, un presidente del Consiglio che con una Commissione di esperti (la “Commissione per le riforme costituzionali”, ndr) voleva cambiare in parti essenziali la Costituzione.

Tuttavia, Monti, formando un suo partito, ha reso in un certo senso un omaggio postumo al Parlamento. La nomina a premier di Enrico Letta del Pd anziché di Pierluigi Bersani ha significato un’intromissione del presidente della Repubblica in carica nella vita interna di un partito, mentre non porta responsabilità per la legge elettorale italiana del 2015, dichiarata incostituzionale per iniziativa degli avvocati “Antitalikum”, formalmente nata da un progetto di legge di iniziativa popolare, strumentalmente sostenuto da Renzi come segretario del Pd. Quella legge, mai applicata, era la legge funzionale alla deforma costituzionale Renzi-Boschi che puntava a superare il bicameralismo paritario – infatti riguardava la sola Camera dei deputati -, come il Porcellum lo era stato della deforma Berlusconi del 2006.

Mattarella, dal canto suo, non ha dovuto autorizzare la presentazione della legge che nel 2020 ha tagliato il Parlamento, in quanto si è trattato di un provvedimento di iniziativa parlamentare e non governativa. Ma non ha fatto nulla per impedirne o almeno ritardarne l’approvazione, anzi l’ha facilitata, con qualche disinvoltura costituzionale, consentendo l’election day spalmato su due giorni, quando la legge non modificata sul referendum costituzionale prevedeva un solo giorno. E l’ha promulgata in tutta fretta, invece di rispedirla alle Camere con un messaggio motivato almeno su un punto, inserito di soppiatto come emendamento al testo base, quello che riguardava i senatori assegnati al Trentino-Alto Adige. Quell’emendamento violava palesemente l’immodificato articolo 57 della Costituzione che sancisce l’elezione «a base regionale» – e non provinciale – del Senato, ma soprattutto violava il diritto costituzionale fondamentale di eguaglianza dei cittadini. L’uguaglianza dei cittadini è uno dei…

*L’autore: Felice Besostri è avvocato ed ex senatore della Repubblica. Fa parte del Circolo Rosselli di Milano


L’articolo prosegue su Left del 7-13 gennaio 2022

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