Il disimpegno statunitense da Afghanistan e Somalia e quello francese dal Sahel danno modo al Dragone di aumentare il proprio peso internazionale, di rafforzare l’asse già solido con Mosca e di accrescere i propri interessi economici all’estero

Il 15 agosto 2021 i talebani prendono Kabul. Il 5 settembre, al termine di una giornata confusa di spari e paura per gli abitanti di Conakry, il leader della rivolta, il capo delle forze speciali Doumbouya, annuncia alla tv di aver catturato il presidente, Alpha Condé, e preso il controllo. È il terzo colpo di Stato in Guinea dal 1984, e almeno il quarto in Africa nell’ultimo anno, se si aggiunge il più recente golpe in Sudan.
Gli eventi della scorsa estate hanno segnato l’inizio di un’escalation con ripercussioni globali. Non potrebbe essere altrimenti considerata la collocazione strategica delle aree coinvolte: l’Asia centrale, il cuore dell’Eurasia, e il Golfo di Guinea, dove transita il 90% dei prodotti commerciati nell’Africa occidentale.
La Cina osserva gli sviluppi con particolare apprensione. Entrambe le regioni sono ricche di materie prime e bisognose di investimenti infrastrutturali. Allo stesso tempo la cronica instabilità politica ne compromette il potenziale economico. Agli occhi di Pechino, l’Africa rappresenta un pericolo lontano ma particolarmente oneroso, data la consolidata presenza cinese. L’Afghanistan, invece, seppur ancora tutto da esplorare, è una minaccia vicinissima in grado di valicare agilmente la frontiera condivisa.
Secondo gli esperti, la vittoria talebana a Kabul potrebbe incoraggiare le sigle jihadiste africane, finora ancora limitate dalle carenze organizzative. L’Africa viene considerata l’area del mondo sul lungo periodo più esposta al terrorismo islamico. Boko Haram in Nigeria, al-Shabaab in Somalia, lo Stato Islamico nel Grande Sahara, insieme ai vari gruppi armati in Mozambico e Nigeria, rendono il quadrante regionale una polveriera pronta a esplodere. Alla luce del disimpegno statunitense dalla Somalia e del ripiegamento francese dall’Operazione Barkhane nel Sahel, la Cina sente il peso di nuove responsabilità.
Secondo l’Accademia cinese delle scienze sociali, nel 2020, l’84% dei progetti della Belt and road (Bri) – l’iniziativa di politica estera con cui Pechino sostiene la penetrazione internazionale delle aziende statali cinesi attraverso la costruzione di grandi vie di comunicazione marittime e terrestri – si trovava in Paesi a medio-alto rischio. Tanto che per…


L’articolo prosegue su Left del 7-13 gennaio 2022

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