L’Italia è ancora disseminata di monumenti fascisti. Alla statua di Montanelli è toccata solo qualche secchiata di vernice rosa. Mentre statue di colonialisti sono state divelte in Inghilterra, negli Usa e altrove. Con “Decolonizzare il patrimonio” Maria Pia Guermandi rilancia il dibattito

L’arte ha sempre un significato sociale. Ma, oserei dire, anche politico. Maria Pia Guermandi lo rende ben chiaro con il suo Decolonizzare il patrimonio: saggio sfaccettato, coltissimo ma scritto in modo assai coinvolgente. Gli argomenti che l’archeologa affronta sono molteplici: dall’uso e abuso del patrimonio storico artistico sbandierato come un feticcio dal potere per affermare una propria egemonia, al patrimonio distrutto o colonizzato dai regimi, fino al tema attuale della sua colonizzazione da parte di un turismo “estrattivo” (e non della conoscenza) che va di pari passo alla mancata democratizzazione dell’accesso al patrimonio (sono le due facce di una stessa medaglia).

Avremo modo di ritornare su questa molteplicità di temi parlando anche di altri volumi usciti nella collana Antipatrimonio di Castelvecchi diretta dalla archeologa e coordinatrice di Emergenza cultura insieme allo storico dell’arte e rettore dell’Università per stranieri di Siena, Tomaso Montanari.

Ora vorremmo concentrarci qui sui capitoli che Guermandi dedica alla ferocia del colonialismo occidentale che si è abbattuto su popolazioni native inermi ma anche sulla loro storia e cultura, puntando a cancellarne le tracce o a stravolgerne il senso.

Il nerbo della sua ricostruzione riguarda i saccheggi del patrimonio continentale africano che molti Paesi, Italia compresa, hanno compiuto durante lunghi anni di barbarie coloniale.

Tornando a scavare nel nostro passato Maria Pia Guermandi denuncia le distruzioni operate dal “nostro” esercito sul patrimonio libico e etiopico. Altro che italiani brava gente!

Il colonialismo italiano del Regno d’Italia e poi fascista si avventò con ferocia su questi Paesi, facendo stragi anche con gas letali, saccheggiando, deturpando. Salvo poi lucrare anche sulla “ricostruzione” a cui furono costretti operai locali ridotti in schiavitù.

La vicenda dell’Arco di Tripoli ripercorsa da Guermandi nel libro è emblematica e illustra bene questo uso propagandistico della romanità. Dedicato a Marco Aurelio e a Lucio Vero, eretto nel 163 d. C, l’arco fu immediatamente oggetto di interesse degli archeologi italiani, sodali e complici dell’avventura coloniale nel sostenere «il battage retorico sulla necessità di un ritorno nelle terre dell’impero romano». In epoca fascista ne fu avviata una risistemazione, eliminando due fondaci islamici e nel 1937, in occasione della visita di Mussolini in Libia, «poté apparire nel suo isolamento, recintato, al centro di un vuoto asettico di una piazza creata dalla distruzione di edifici e dell’assetto viario precedente», scrive Guermandi.

Di terribili esempi di questo genere Decolonizzare il patrimonio ne racconta molti, mostrando come il recupero di resti archeologi propagandato in termini trionfalistici dalla stampa italica fosse servito a sostenere l’immagine del Regime che rivendicava la legittimità della guerra e della occupazione come riappropriazione di pezzi di storia dell’Impero romano. Con questa enfasi e retorica il turismo italiano in quelle regioni fu incoraggiato dal Touring club in chiave esotica, stigmatizzando le popolazioni locali come inferiori, fin dal colore della pelle, in contrapposizione con il biancore della Venere di Cirene del II del secolo. d.C che fu trasferita a Roma e celebrata anche su francobolli. Sulla rivista Difesa della razza nel 1938, «la purezza della razza ariana era ancora una volta rappresentata da una statua classica», rimarca l’archeologa.

Non andò meglio con la popolazione e con il patrimonio etiope. Anzi: la guerra d’Etiopia del 1935-1936 e l’occupazione fascista falcidiarono la popolazione: bombardamenti con gas, riduzione dei civili ai lavori forzati, stupri. E come “danno collaterale” il saccheggio del patrimonio culturale. È ben nota la vicenda della stele di Axum, portata a Roma, come omaggio a Mussolini e imperituro ricordo della sua «gloriosa impresa bellica».

Grande merito di questo libro di Maria Pia Guermandi è la ricostruzione puntuale di queste pagine buie della nostra storia riportandole nel dibattito di oggi, evidenziando come l’ideologia coloniale sia ancora pienamente attiva e sia insomma «una faccenda che ci riguarda».

Da alcuni anni una nuova sensibilità è cresciuta riguardo alla necessità di restituire opere d’arte saccheggiate ai Paesi dove sono nate. Un dibattito che non riguarda solo l’Italia (che fin qui purtroppo non ne è stata toccata a sufficienza) ma anche molti altri Paesi occidentali. A cominciare dalla Gran Bretagna, dove la querelle va avanti da decenni nel mondo accademico e sui media. Il British Museum, in particolare, è stato al centro di un ampio dibattito per i suoi tesori spesso acquisiti in modo illegittimo. Il prestigioso museo londinese, per statuto, ha sempre respinto ogni richiesta di restituzione. Alla Grecia che da tempo reclama i fregi del Partenone, (su questo Christopher Hitchens scrisse un celebre pamphlet I marmi del Partenone, Fazi, 2006), ha dato solo una risposta scarsamente accettabile.

«I trustee del British – scrive Guermandi – hanno ribadito il valore “universale” dei marmi fidiaci which transcend cultural boundaries, in cui i confini da trascendere continuano però a essere solo quelli greci».

Intanto, in attesa di una più civile risposta, il museo dell’Acropoli ad Atene, che ospita il resto del fregio di Fidia e dei suoi assistenti, ha lasciato spazi vuoti per i marmi mancanti.

Anche questo, purtroppo, è solo uno dei tanti esempi che potremmo fare. Accenniamo solo che il governo dell’Isola di Pasqua, guidato dal popolo indigeno Rapa Nui che ha conquistato l’autonomia dal Cile, ha avanzato una richiesta simile. Lo stesso ha fatto la Nigeria per riavere le opere razziate nel 1897, quando le truppe britanniche misero a sacco e distrussero l’antico palazzo reale del Benin, in quella che è ora Benin City, in Nigeria, trafugandone gli antichi tesori. Le migliaia di opere in bronzo, ottone, avorio e legno che furono rubate sono oggi sparse in 160 musei e collezioni private in diverse parti del mondo.

L’archeologo e docente a Oxford Dan Hicks ha parlato del saccheggio sistematico e pianificato del palazzo reale di Benin in un libro dal titolo eloquente, Brutish Museums. Restituire le opere rubate ai Paesi d’origine è il primo passo, sostiene Hicks, per riparare le ingiustizie e le atrocità del passato.

Il libro di Guermandi affronta e argomenta il tema delle necessarie restituzioni senza trascurare di mettere in luce anche il meno visibile razzismo che talora innerva perfino i progetti più avanzati. Molto si è discusso a questo proposito del seducente Musée du quai Branly inaugurato nel 2006 a Parigi. Per quanto la concezione degli spazi interni disegnati da Jean Nouvel riflettesse il ribaltamento dei criteri etnografici classici, con gli oggetti presentati in una sorta di continuum come opere da percepire emozionalmente più che razionalmente, alla fine, fa notare Guermandi, il fatto che vi siano incluse solo opere extraeuropee, crea comunque una compartimentazione e una separazione fra culture di serie A e serie B.

In Decolonizzare il patrimonio ovviamente, visti i fatti più recenti, non poteva mancare un capitolo dedicato alle proteste contro i monumenti e statue razziste che punteggiano le piazze negli Stati Uniti, ma anche quelle di molte città europee. L’abbattimento della statua di Edward Colston a Bristol, la vandalizzazione della statua del feroce colonialista Leopoldo II in Belgio (che ora potrebbe essere sostituito con monumento alle vittime del colonialismo belga) non sono avvenuti a caso. Il movimento Black lives matter negli Stati Uniti ha segnato un risveglio di pensiero antirazzista, provocando un effetto “domino” che ha coinvolto anche l’Europa. Guermandi se ne occupa nel libro sostenendo la necessità di leggere il significato politico della statuaria nei luoghi pubblici, che – come ci è capitato di scrivere in altre occasioni – sempre estende la sua aura su spazi condivisi ridisegnandone il senso. Questo è un fatto che non può essere trascurato. Anche per questo avevamo salutato su Left come gesto fertile di pensieri anti razzisti le secchiate di vernice rosa che le femministe hanno gettato sulla statua di Montanelli a Milano. Come è noto nel 1935 in Etiopia l’intoccabile Montanelli, in difesa del quale si mobilitano ancora oggi molti colleghi, prese in sposa una dodicenne e ancora nei suoi ultimi anni scrisse parole agghiaccianti nei suoi riguardi. Perché, ci domandiamo, una statua che celebra Montanelli che comprò e violentò una bimba svetta in un giardino pubblico frequentato da bambini?

 


L’articolo prosegue su Left del 25 febbraio 2022 

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SOMMARIO

Direttore responsabile di Left. Ho lavorato in giornali di diverso orientamento, da Liberazione a La Nazione, scrivendo di letteratura e arte. Nella redazione di Avvenimenti dal 2002 e dal 2006 a Left occupandomi di cultura e scienza, prima come caposervizio, poi come caporedattore.