Dal 24 febbraio a oggi in Ucraina si sta consumando una inaccettabile strage di civili. Fra loro anche donne e bambini che non sono ancora riusciti a lasciare il Paese come gli ormai quasi due milioni di profughi rifugiati oltre confine. Con l’uso di armi proibite dal diritto internazionale, come le bombe a grappolo, l’esercito russo ha colpito anche edifici civili, asili, ospedali. L’attacco di Putin alla popolazione ucraina è un crimine di guerra, che dovrà essere giudicato dal Tribunale internazionale dell’Aja. Perché allo scempio inaccettabile di vite umane non segua anche l’impunità. Come è accaduto quando il dittatore russo ha raso al suolo Grozny. Il dramma della Cecenia si è consumato tra il 1999 e il 2009 nel sostanziale silenzio dell’Occidente. La Cecenia appariva come un Paese lontano. Forse anche perché i ribelli ceceni erano caucasici e musulmani e avvertiti come “diversi” dai bianchi cristiani? Questo dubbio terribile si è affacciato alla nostra mente. Ciò che è certo è che oggi dobbiamo fare in modo che non si ripeta quel bagno di sangue che la giornalista russa della Novaja gazeta Anna Politkovskaja denunciò con i suoi reportage, silenziati con un proiettile che la colpì alla testa, mentre rientrava a casa con le borse della spesa. Fu una vera e propria esecuzione e dopo tanti anni non ha avuto ancora giustizia. Intanto Putin torna a silenziare i giornalisti non allineati. Chiude le testate che non rilanciano la sua propaganda (quanto potrà resistere ancora l’unica voce di opposizione, la Novaja gazeta diretta dal premio Nobel per la pace Muratov?), blocca i social, impone la legge marziale per cui per “reati di opinione” si è giudicati da tribunali militari e infligge pene fino a 15 anni a chi è accusato di diffondere notizie sull’esercito russo e sul conflitto che il regime bolla come fake news. Nonostante tutto questo, le proteste proseguono nelle grandi città russe. Sono soprattutto i Put-teens, i ragazzi nati e cresciuti nel suo ventennio di potere a scendere in piazza, con coraggio, e, conseguentemente, ad essere arrestati. Ma non sono i soli. Sono tanti anche gli attivisti, intellettuali, giornalisti, fotografi che hanno avuto la stessa sorte. L’attivista russa Elena Popova del movimento pacifista degli obiettori di coscienza che avevamo provato a contattare per un’intervista dopo aver ascoltato le sue parole di condanna dell’invasione russa in Ucraina è stata arrestata. Su questo numero rilanciamo la sua lotta, insieme a quella degli scienziati russi che hanno stilato un documento di condanna dell’aggressione all’Ucraina. «Per questa guerra non ci sono giustificazioni - scrivono -. I tentativi di sfruttare la situazione del Donbass come occasione per aprire un teatro di guerra non sono per niente credibili. È del tutto evidente che l’Ucraina non rappresenta una minaccia per la sicurezza del nostro Paese. La guerra contro di essa è ingiusta e manifestamente priva di senso».

Che fare ora per evitare che prosegua la carneficina in Ucraina?  «È facile dire da Roma non mandiamo armi agli ucraini», dice a Left Riccardo Noury, portavoce di Amnesty international. «C’è sicuramente un dovere morale che ci colpisce di fronte a un appello di richiesta di aiuto», ma sappiamo anche, aggiunge, che inviare armi non è risolutivo e che anzi innesca una escalation di violenza. Senza dimenticare l’ipocrisia di inviare armi agli ucraini e intanto continuare a foraggiare la Russia acquistando il suo gas. La strada dunque non può che essere quella di inasprire le sanzioni, in modo da colpire Putin e gli oligarchi. Ma come chiedono a gran voce le piazze pacifiste di tutto il mondo, è prioritario percorrere fino in fondo la via diplomatica, delle trattative. L’Europa che troppo a lungo ha fatto finta di non vedere il conflitto tra Ucraina e Russia che divampava nel Donbass da molti anni si assuma la responsabilità di costruire un percorso di pace. Intervenga l’Onu, come scrive qui Alfio Nicotra di un Ponte per, senza tuttavia dimenticare le responsabilità dei caschi blu nella ex Jugoslavia e invocando una urgente riforma di questo organismo internazionale. In questo complesso scenario un ruolo di mediazione, seppur “sotterraneo”, potrebbe essere svolto anche dalla Cina, come suggerisce il sinologo Federico Masini in queste pagine. Per quanto alleata della Russia e suo forte partner economico, la Cina si è astenuta sulla risoluzione dell’Onu contro l’invasione russa. L’attuale situazione in Ucraina è «preoccupante» e la Cina «deplora profondamente» la guerra nel continente europeo ha detto il presidente Xi Jinping nel colloquio con Macron e Scholz.

In questo difficile quadro, ne siamo assolutamente convinti, conta molto anche l’azione dal basso. Mezzo mondo è contro questa guerra. Le proteste di piazza lo dimostrano. Molto possono fare le reti internazionali pacifiste per riunire un grande fronte mondiale. Podemos con il leader laburista Corbyn e altri ha lanciato una piattaforma. Ma in Italia non se ne parla. Sui media mainstream abbondano soprattutto commentatori con l’elmetto. Gli stessi che con sarcasmo hanno attaccato la manifestazione pacifista convocata dalla Cgil, dall’Anpi e da tantissime associazioni e reti per il disarmo. Anche noi c’eravamo, con lo striscione di Left con su scritto una frase di Massimo Fagioli che è, ancor più, un programma per l’oggi: «Una lotta, senza armi, soltanto rivoluzione del pensiero e parola».

  * In alto: un momento della manifestazione contro la guerra di sabato 5 marzo 2022 a Roma, foto di Lorenzo Foddai [su_divider style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]
L'editoriale è tratto da Left dell'11-17 marzo 2022 
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Dal 24 febbraio a oggi in Ucraina si sta consumando una inaccettabile strage di civili. Fra loro anche donne e bambini che non sono ancora riusciti a lasciare il Paese come gli ormai quasi due milioni di profughi rifugiati oltre confine. Con l’uso di armi proibite dal diritto internazionale, come le bombe a grappolo, l’esercito russo ha colpito anche edifici civili, asili, ospedali. L’attacco di Putin alla popolazione ucraina è un crimine di guerra, che dovrà essere giudicato dal Tribunale internazionale dell’Aja. Perché allo scempio inaccettabile di vite umane non segua anche l’impunità. Come è accaduto quando il dittatore russo ha raso al suolo Grozny. Il dramma della Cecenia si è consumato tra il 1999 e il 2009 nel sostanziale silenzio dell’Occidente. La Cecenia appariva come un Paese lontano. Forse anche perché i ribelli ceceni erano caucasici e musulmani e avvertiti come “diversi” dai bianchi cristiani? Questo dubbio terribile si è affacciato alla nostra mente.

Ciò che è certo è che oggi dobbiamo fare in modo che non si ripeta quel bagno di sangue che la giornalista russa della Novaja gazeta Anna Politkovskaja denunciò con i suoi reportage, silenziati con un proiettile che la colpì alla testa, mentre rientrava a casa con le borse della spesa. Fu una vera e propria esecuzione e dopo tanti anni non ha avuto ancora giustizia. Intanto Putin torna a silenziare i giornalisti non allineati. Chiude le testate che non rilanciano la sua propaganda (quanto potrà resistere ancora l’unica voce di opposizione, la Novaja gazeta diretta dal premio Nobel per la pace Muratov?), blocca i social, impone la legge marziale per cui per “reati di opinione” si è giudicati da tribunali militari e infligge pene fino a 15 anni a chi è accusato di diffondere notizie sull’esercito russo e sul conflitto che il regime bolla come fake news. Nonostante tutto questo, le proteste proseguono nelle grandi città russe. Sono soprattutto i Put-teens, i ragazzi nati e cresciuti nel suo ventennio di potere a scendere in piazza, con coraggio, e, conseguentemente, ad essere arrestati. Ma non sono i soli. Sono tanti anche gli attivisti, intellettuali, giornalisti, fotografi che hanno avuto la stessa sorte. L’attivista russa Elena Popova del movimento pacifista degli obiettori di coscienza che avevamo provato a contattare per un’intervista dopo aver ascoltato le sue parole di condanna dell’invasione russa in Ucraina è stata arrestata. Su questo numero rilanciamo la sua lotta, insieme a quella degli scienziati russi che hanno stilato un documento di condanna dell’aggressione all’Ucraina. «Per questa guerra non ci sono giustificazioni – scrivono -. I tentativi di sfruttare la situazione del Donbass come occasione per aprire un teatro di guerra non sono per niente credibili. È del tutto evidente che l’Ucraina non rappresenta una minaccia per la sicurezza del nostro Paese. La guerra contro di essa è ingiusta e manifestamente priva di senso».

Che fare ora per evitare che prosegua la carneficina in Ucraina?  «È facile dire da Roma non mandiamo armi agli ucraini», dice a Left Riccardo Noury, portavoce di Amnesty international. «C’è sicuramente un dovere morale che ci colpisce di fronte a un appello di richiesta di aiuto», ma sappiamo anche, aggiunge, che inviare armi non è risolutivo e che anzi innesca una escalation di violenza. Senza dimenticare l’ipocrisia di inviare armi agli ucraini e intanto continuare a foraggiare la Russia acquistando il suo gas. La strada dunque non può che essere quella di inasprire le sanzioni, in modo da colpire Putin e gli oligarchi. Ma come chiedono a gran voce le piazze pacifiste di tutto il mondo, è prioritario percorrere fino in fondo la via diplomatica, delle trattative. L’Europa che troppo a lungo ha fatto finta di non vedere il conflitto tra Ucraina e Russia che divampava nel Donbass da molti anni si assuma la responsabilità di costruire un percorso di pace. Intervenga l’Onu, come scrive qui Alfio Nicotra di un Ponte per, senza tuttavia dimenticare le responsabilità dei caschi blu nella ex Jugoslavia e invocando una urgente riforma di questo organismo internazionale. In questo complesso scenario un ruolo di mediazione, seppur “sotterraneo”, potrebbe essere svolto anche dalla Cina, come suggerisce il sinologo Federico Masini in queste pagine. Per quanto alleata della Russia e suo forte partner economico, la Cina si è astenuta sulla risoluzione dell’Onu contro l’invasione russa. L’attuale situazione in Ucraina è «preoccupante» e la Cina «deplora profondamente» la guerra nel continente europeo ha detto il presidente Xi Jinping nel colloquio con Macron e Scholz.

In questo difficile quadro, ne siamo assolutamente convinti, conta molto anche l’azione dal basso. Mezzo mondo è contro questa guerra. Le proteste di piazza lo dimostrano. Molto possono fare le reti internazionali pacifiste per riunire un grande fronte mondiale. Podemos con il leader laburista Corbyn e altri ha lanciato una piattaforma. Ma in Italia non se ne parla. Sui media mainstream abbondano soprattutto commentatori con l’elmetto. Gli stessi che con sarcasmo hanno attaccato la manifestazione pacifista convocata dalla Cgil, dall’Anpi e da tantissime associazioni e reti per il disarmo. Anche noi c’eravamo, con lo striscione di Left con su scritto una frase di Massimo Fagioli che è, ancor più, un programma per l’oggi: «Una lotta, senza armi, soltanto rivoluzione del pensiero e parola».

 

* In alto: un momento della manifestazione contro la guerra di sabato 5 marzo 2022 a Roma, foto di Lorenzo Foddai


L’editoriale è tratto da Left dell’11-17 marzo 2022 

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SOMMARIO

Direttore responsabile di Left. Ho lavorato in giornali di diverso orientamento, da Liberazione a La Nazione, scrivendo di letteratura e arte. Nella redazione di Avvenimenti dal 2002 e dal 2006 a Left occupandomi di cultura e scienza, prima come caposervizio, poi come caporedattore.