Le guerre non scoppiano perché leggiamo Dostoevskij, ma perché non lo leggiamo abbastanza. La crisi internazionale può essere l’occasione per ripensare e valorizzare il ruolo delle istituzioni culturali. Ma il ministero che fa?

Nel discorso pubblico di questi giorni assurdi e terribili tornano più volte non pochi paragoni con la situazione europea del 1939 e soprattutto del 1914. Il riferimento ai primi passi della Grande guerra sembra purtroppo calzante anche in ragione delle sorti del patrimonio culturale. Come mai prima di allora, i monumenti si scoprirono subito fragili. Il bombardamento della Cattedrale di Reims a poche settimane dall’inizio delle ostilità evidenziò la vulnerabilità di un patrimonio che richiedeva attenzioni speciali; la dolorosità di ferite che potevano risultare in un certo senso più devastanti delle perdite di vite umane, quando ad essere colpiti erano i simboli identitari stessi di una nazione; e ancora, e forse soprattutto, la neutralità solo relativa del patrimonio culturale, che suo malgrado finiva per essere arruolato come le truppe combattenti, e brandito dalla propaganda come arma spesso impropria. Le macerie di Reims servirono tanto alla propaganda francese, che accusò il nemico di barbarie intenzionale, quanto a quella tedesca, che rinfacciò ai francesi di aver strumentalizzato quel che non erano stati capaci di proteggere. In Italia un intellettuale di punta come Ugo Ojetti curò la pubblicazione di un notevole libro fotografico (I monumenti italiani e la guerra, Milano 1917) che voleva dimostrare come erano stati disumani gli austriaci nel colpire le nostre opere d’arte e come erano stati bravi gli italiani nel difenderle.

Fanno tenerezza le immagini commoventi giunte nei giorni scorsi da Leopoli – il crocifisso ligneo deposto dal suo altare, le statue pubbliche impacchettate alla meno peggio – anche perché queste misure sono condizionate dai mezzi a disposizione e dalla frenesia del momento: e per proteggersi dalle bombe ci vuol altro che teli di plastica. Ma sono frutto di una cultura internazionale della conservazione che mira a proteggere le opere d’arte nella ferma convinzione che siano l’espressione più alta di ogni civiltà, e dunque il perno di ogni ricostruzione. Alla vigilia della seconda guerra mondiale, Giuseppe Bottai sosteneva che un popolo disposto ad affrontare una guerra deve farlo con tutte le risorse che ha, comprese quelle culturali. Nel senso che un popolo che non si preoccupa di proteggere la propria arte come se proteggesse le cose più care – terra, casa, famiglia, affetti – non avrebbe mai potuto sperare di uscirne. Le notizie dal fronte di oggi sono incerte e confuse. Le opere dei musei di Kyiv sono state poste in sicurezza, e per ora nessuna delle grandi chiese del centro propulsivo della civiltà russa medievale è stata colpita. Non altrettanto bene è…


L’articolo prosegue su Left del 18-24 marzo 2022 

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