Il potere globale è ormai troppo articolato per restare nelle mani di un’unica superpotenza. Anche alla luce della guerra in Ucraina, per evitare disastri, la strada è riconoscere parità di diritti e pari dignità ai popoli, senza imporre il modello di società maturato in Europa e negli Usa nel corso dei secoli

La globalizzazione, ormai è assodato, ha avuto due effetti contrastanti: all’interno dei Paesi di più vecchia industrializzazione ampi strati sociali si sono impoveriti, mentre in Paesi quali Cina, India, Sud Est asiatico, ma anche in alcuni Paesi africani, si è invece formata una classe media benestante con stili di vita simili ai nostri. Accanto a quegli oligarchi di ogni Paese che ostentano fortune immense, dunque, tra i vincenti della globalizzazione figurano anche alcuni miliardi di persone che sono uscite da una condizione di estrema povertà. Questo processo pone Stati Uniti, Europa, e loro alleati di fronte ad una scelta: assecondare questa tendenza, prendendo atto della sproporzione tra il loro peso demografico ed economico e gli strumenti di potere di cui ancora dispongono; oppure sfruttare questi strumenti per conservare il proprio dominio. Con la prima alternativa l’Occidente dovrebbe operare affinché i principi di cui va fiero – libertà, diritti e democrazia – possano trovare realizzarsi anche nei rapporti tra i popoli, riformando organismi quali il Fondo monetario internazionale, la World bank, e operando per lo stato di diritto a livello globale, mentre con la seconda torniamo alla nostra peggiore tradizione, segnata da schiavismo, razzismo e sfruttamento dei popoli “inferiori”.

La globalizzazione ha generato questo doppio effetto (crescita delle diseguaglianze e crescita dell’uguaglianza) perché lo sviluppo dei commerci ha favorito l’accumulazione di immense fortune nelle mani di pochi, ma anche lo sviluppo di Paesi quali India, Cina e tanti altri. È vero, infatti, che mettere in concorrenza un lavoratore americano e europeo con un cinese, un indiano e un vietnamita genera una spinta verso il basso dei salari nei Paesi avanzati, ma nei Paesi poveri l’effetto sui salari è opposto, soprattutto dove i governi sono stati in grado di gestire questi processi a proprio vantaggio.
La pandemia ha modificato il quadro, spingendo le imprese a considerare rischi prima inesistenti quali l’incertezza delle forniture da Paesi lontani. Anche la necessità di fornire risposte alla protesta sociale ha incentivato i Paesi avanzati a riportare all’interno dei confini domestici produzioni delocalizzate. Nella stessa direzione opera il conflitto in corso, che ha indotto i governi a riprendere il controllo di imprese e produzioni strategicamente importanti. È comparsa una parola nuova: deglobalizzazione. Venendo alla guerra, il suo effetto immediato è stata la…

L’articolo prosegue su Left del 6 maggio 2022 

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