«La nostra casa, la scuola, tutto fu bombardato da quel criminale di Assad che è uguale a Putin» racconta Asmaa Al Natour. Rifugiata da 7 anni in Danimarca ora rischia di essere rimandata in Siria. «Dicono che è un Paese sicuro ma è falso, se torno mi uccidono»

«Non so scrivere su Damasco senza che si intrecci il gelsomino sulle mie dita/Non so pronunciare il suo nome senza che sulla mia bocca si addensi il nettare dell’albicocca, del melograno, della mora e del cotogno/Non so ricordarla senza che si posino su un muretto della memoria mille colombe… e mille colombe volano». Rifugiata da sette anni in Danimarca con suo marito Omar, Asmaa Al Natour, cinquant’anni, insegnante di arabo, dissidente del regime di Assad, adora i versi di Nizar Qabbani, monumento della letteratura siriana. Li raggiungiamo al telefono, lei sospira ricordando quei versi perché sa che non può tornare nel suo Paese senza rischiare di venire arrestata, torturata, uccisa. Davanti ai loro occhi però c’è uno spettro: una sentenza che deciderà della loro sorte. Dopo ben sette anni, e quando le cose cominciavano ad andar bene, Asmaa e Omar sono stati costretti intanto a lasciare la loro casa di Holsterbro, per essere alloggiati all’Asylum Center, di fatto un centro di prima accoglienza, ricacciati indietro nella loro storia, scritta anche sulle pagine di quel faticosissimo percorso d’integrazione. Dal 2020 al 2021 la socialdemocratica Danimarca ha revocato il permesso di soggiorno a centinaia di rifugiati, con la palese menzogna secondo cui la Siria sarebbe diventato ormai un posto sicuro, dove poter tornare in piena libertà e senza rischi. «Una pazzia, una bugia gigantesca, andremmo incontro alla morte, anche Amnesty international ha detto che non ci sono le condizioni per tornare in Siria», dice Asmaa, smarrita, incredula, con ancora nelle orecchie i fischi dei bombardamenti su Al Yarmouk, appena fuori Damasco, il più grande campo profughi palestinese del Medio Oriente, dove lei si recava tutte le mattine dai suoi scolari.

Asmaa, tu ha ribadito ai giudici che siete dissidenti, che rischiate la vita?
Certo, abbiamo raccontato tutto, e loro lo sanno benissimo chi siamo. Ma non gli importa nulla, siamo soltanto dei numeri. Io sono un’insegnante di arabo, mio marito, che si è ammalato di cuore e ha avuto poi un ictus per questa odissea che stiamo vivendo, era un funzionario del ministero dell’Agricoltura. Vorrei vedere loro al nostro posto, costretti a fuggire, la nostra identità umiliata. Io non sono una rifugiata, non c’era scritto questo sui miei documenti quando sono venuta al mondo. C’erano scritti il mio nome e cognome, non “rifugiata”.

Avete preso parte alle manifestazioni di protesta pacifiche, quando scoppiò la rivolta?
Sì, da subito. Come tantissimi di noi, contro quel regime sanguinario, anche i miei due ragazzi… Ed è per questo che abbiamo avuto dei martiri nella nostra famiglia, alcuni assassinati sotto tortura. Un giorno ci riportarono il corpo di un nostro nipote, dicendoci che avremmo dovuto ringraziarli per averci dato la possibilità di avere il cadavere.

Che cosa facevate prima di essere relegati all’Asylum Center? E i tuoi figli?
Dopo tanta fatica e lacrime eravamo riusciti ad aprire un negozietto di prodotti arab, cibi etnici, dolci. I miei ragazzi hanno 25 e 21 anni, si chiamano Hani e Wessam, studiano entrambi informatica, uno all’università, l’altro ha scelto un percorso più veloce. Loro possono restare, per questo motivo, in Danimarca.

Ma che cosa faranno le autorità danesi nell’eventualità di una sentenza negativa?
Non ci cacciano con la forza, ma fanno pressioni. Ci metteranno in un campo di espulsione, che è come una prigione. Arrivi a un punto in cui dici: non ce la faccio più. E magari parti. Non sapremmo dove andare, non abbiamo vie d’uscita.

È terribile questo, Asmaa, e accade dopo sette anni e soprattutto dopo il viaggio dalla Siria a qui che possiamo soltanto immaginare…
Ti dico solo che siamo anche passati dalla Libia, e prima nel deserto al confine, dove ci derubarono di tutto. Infine su quella barca di legno, disperati, increduli. Restammo in mare tre giorni, fino a che una nave  commerciale ci avvistò e ci portò fino in Sicilia. Da lì a Milano, e poi verso il nord Europa. Siamo passati dalla guerra dove siamo stati vicini alla morte, a un viaggio durato un mese e mezzo dove la morte è stata sempre accanto a noi, a due passi da noi. Mio figlio più grande era già in Danimarca, partito con un gruppo di ragazzi siriani e uno zio, fuggito sia perché in età per fare il militare e sia perché aveva partecipato alle manifestazioni. Io e Omar partimmo invece con nostro figlio più piccolo. Mi sono detta: meglio morire in mare che essere presi dal regime.

Chi è Assad per te?
Il presidente di nessuno, si prende in giro da solo

Non hai paura? Anche in Danimarca, come altrove, è pieno di agenti dei servizi segreti e di gente collegata al regime.
Dopo un’intervista ad Al Jazeera, a ottobre scorso, ho ricevuto minacce di morte. Ma non mi sento in pericolo, e sono forte. So che saremo noi a vincere. Ma qui in Europa devono smetterla di giocare con le nostre vite.

Che sentimenti provi in queste ore, osservando ciò che sta accadendo in Ucraina?
Sento un grande dolore. Mi vengono in mente le scene della nostra guerra, in Siria, quando la gente scappava, le file di automobili sotto le bombe, la morte di tanti innocenti per colpa delle armi chimiche. È terribile. La nostra casa, la scuola, tutto è stato bombardato dai missili di quel criminale di Bashar al-Assad che è uguale a Putin.

 

* Aggiornamento dell’11 maggio 2022 *
Le autorità danesi hanno infine prolungato il permesso di soggiorno per Asmaa e Omar

 

In foto, Asmaa Al Natour (con il cartello a sinistra)

 


L’articolo è tratto da Left dell’11-17 marzo 2022 

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