Dopo 20 anni di occupazione gli Usa hanno consegnato gli afgani a un regime sanguinario. Nel libro "Afghanistan. Return of the Taliban" il fotoreporter iraniano Kaveh Kazemi e la giornalista colombiana Catalina Gomez Angel raccontano chi sono i nuovi padroni di Kabul

«Il primo talebano con cui ho parlato l’ho incontrato accanto a un carro armato russo», un residuato bellico dell’era dell’occupazione sovietica.
«Aveva vissuto in Iran per alcuni anni e recentemente era tornato in Afghanistan. Si lamentava del fatto che i talebani non pagavano e aveva intenzione di tornare in Iran. A causa del blocco dei beni dell’Afghanistan da parte degli Stati Uniti, le casse del nuovo governo sono vuote e i talebani hanno pochi soldi in mano». A parlare è Kaveh Kazemi, fotoreporter iraniano che per decenni ha viaggiato in mezzo mondo, divenendo una firma dell’agenzia Getty Images. Kazemi dedica il suo ultimo libro all’Afghanistan tornato in mano ai talebani. Il libro, che in circa 170 pagine raccoglie una selezione di immagini dal suo recente viaggio nel Paese, si intitola Afghanistan. Return of the Taliban. A nation betrayed ed è uscito, con testi sia in inglese che in persiano, con l’editore iraniano Nazar art publication ed è disponibile sul sito dell’olandese Idea Books.
«Lo stesso pomeriggio – prosegue Kazemi , nel suo racconto del viaggio dello scorso settembre – mi sono imbattuto in un gruppo di talebani, davanti all’ufficio del governatore» di Herat. A colpirlo in particolare uno di loro che, sandali ai piedi, era tutto concentrato sul proprio smartphone e immerso nei social. Era seduto «sul tetto di un Humvee, un mezzo militare americano, il cui lunotto antiproiettile era stato frantumato da colpi di arma da fuoco o lanciarazzi dei talebani. Aveva un atteggiamento orgoglioso. Quella foto, a mio avviso, simboleggia l’inutilità di 20 anni di guerra e l’umiliazione subita dagli americani» nel loro precipitoso ritiro del 15 agosto 2021. Il racconto per immagini di Kazemi ci porta anche nel Qargha Park, un parco per divertimenti appena fuori Kabul, dove un gruppo di talebani si divertiva con le attrazioni del posto: in particolare, un’altalena gigante a forma di nave dei pirati. Fra di loro, protetto da una scorta di uomini delle forze speciali note come Badri 313, anche il vice ministro dell’intelligence. Andando su e giù su quella nave dei pirati, guardie del corpo e delle forze speciali «erano più eccitate dei bambini. Quei combattenti avevano probabilmente vissuto per anni tra grotte e montagne e ora, per la prima volta nella loro vita, stavano facendo un giro in un parco divertimenti».
Della tappa a Kandahar, la storica roccaforte talebana nel sud, il fotografo ricorda in particolare l’enorme pista di un aeroporto militare costruito dagli americani, ormai deserta e inutile, e «la povertà e la devastazione causata dalla guerra» in quella regione, rimasta particolarmente arretrata. E del ritorno via terra alla frontiera con l’Iran, segnala «la lunga e bellissima strada» che ricordava il film del regista iraniano Mohsen Makhmalbaf Ritorno a Kandahar: 5-600 chilometri costruiti prima dai russi e poi dagli americani, ma cosparsa dei danni causati dalle bombe dei talebani» e che loro stessi dovrebbero ora riparare.
Il racconto di Kazemi è essenziale e attento ai dettagli come le sue foto, ma a parlare molto di più sono appunto le immagini: scatti che colgono gli sguardi (in primo luogo degli stessi talebani, i quali «amano essere fotografati») e i contrasti di un Paese il cui destino è stato bruscamente cambiato nel giro di quei pochi giorni dello scorso agosto.
A completare la narrazione è un testo di Catalina Gomez Angel, giornalista di origine colombiana che ha coperto il Medio Oriente e l’Asia Centrale per vari media internazionali, fra i quali La Vanguardia di Barcellona e il canale in spagnolo di France24. Cosa c’era dietro quelle immagini?, si chiede la giornalista, che è anche moglie di Kazemi e con lui ha condiviso quel viaggio. «C’era speranza tra coloro che celebravano la fine della guerra» e la fine degli attacchi aerei sulle regioni del sud. «Alcuni erano indignati per il modo in cui il presidente Ashraf Ghani aveva lasciato il Paese, altri erano felici che gli americani se ne fossero andati… C’era molta disillusione, disperazione, paura, sfinimento, angoscia, il senso di essere stati traditi e, soprattutto, molta tristezza, anche se non sempre per le stesse ragioni». E ancora, la disperazione di chi aveva contato sui combattenti del Panjshir come ultimo fronte di resistenza. E «la tristezza di centinaia di famiglie in fuga dalla guerra, che ora si trovano in condizioni terribili, vivono nelle tende, senza alcun aiuto», visto che molte organizzazioni internazionali hanno sospeso la loro attività. Gli sfollati sono stati abbandonati al loro destino, con un governo che non sapeva governare né aveva le risorse per farlo, visto il congelamento all’estero dei fondi del Paese, che ha fatto precipitare la crisi economica. E poi la tristezza dei giornalisti che avevano perso il lavoro per la chiusura dei media per cui lavoravano, e ora rischiavano l’arresto e le violenze in carcere. E la disperazione da cui cercavano di non essere sopraffatte le donne, che da un giorno all’altro erano state estromesse dal lavoro, e alle quali venivano imposti nuovi obblighi di abbigliamento: non solo il burqa blu obbligatorio negli anni Novanta ma anche, significativa novità per l’Afghanistan, l’abaya e il niqab nero che siamo soliti associare ai Paesi arabi del Golfo e alle mogli dei jihadisti dell’Isis.
Da quando Kaveh Kazemi e Catalina Gomez Angel hanno concluso il loro viaggio poco è cambiato se non in peggio: dall’aggravarsi della crisi umanitaria (secondo l’Onu almeno 23 milioni di afgani soffrono la fame e il 95% della popolazione non riesce a fare tre pasti al giorno) alla recente esclusione delle ragazze dalle scuole superiori, sopra gli 11 anni di età. Fino ai sanguinosi attentati, probabilmente per mano dell’Isis, che continuano a uccidere decine di persone della minoranza etnica Hazara. Mentre le basi costruite dagli americani e dagli altri partner della coalizione, conclude la giornalista, restano in piedi «come simboli giganti di fallimento, e testimoni di innumerevoli vite perse, di miliardi sperperati in una guerra inutile e di cuori e speranze spezzati».

Foto di Kaveh Kazemi

L’articolo di Luciana Borsatti è tratta da Left del 29 aprile 2022 

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