Ancora una strage negli Stati Uniti, in una scuola. L’agghiacciante uccisione di 19 bambini e due insegnanti a Uvalde, in Texas, è stata messa in atto da un ragazzino che nel giorno del suo diciottesimo compleanno era corso a comprare armi d’assalto. Su episodi simili ci siamo molto interrogati, negli anni, su Left. Questa ennesima tragedia ci impone ulteriori domande. Nessuno in famiglia, nella scuola aveva intercettato il dramma del giovane Salvador Ramos? Perché? Quale “cultura” alimenta queste stragi che, con questa specifica agghiacciante modalità, avvengono solo negli Usa? Per cercare di leggere questo fenomeno più in profondità ci siamo rivolti allo psichiatra e psicoterapeuta Fernando Panzera.
«Il primo fatto che rileverei – dice a Left – è che nel dibattito generale si rimarca soprattutto la necessità del controllo delle armi. Beninteso, che un diciottenne si possa comprare due fucili d’assalto semplicemente sborsando soldi è una cosa folle. Ma – sottolinea lo psichiatra – io non ho letto sui giornali né ascoltato in tv una riflessione sul perché un ragazzo possa trovarsi in una condizione tale da fantasticare e poi realizzare una di quelle stragi che drammaticamente si vedono in Nord America con una certa regolarità. Dello stare male di questi ragazzi io non ho sentito parlare affatto. Certo si possono e si devono limitare le armi, ma bisogna occuparsi del fatto che adolescenti come Salvador Ramos possono stare molto male, possono essere malatissimi. Di questo mi sembra che ci si occupi veramente poco».
Drammi di questa portata fanno pensare a una grave carenza del sistema sanitario americano. Ci si interroga abbastanza su come prevenirli? Leggendo le cronache si ha l’impressione che negli Usa i problemi psichiatrici vengano trattati come una questione di emergenza sociale affidata alle forze di polizia che non sono adeguatamente formate. Cosa ci può dire in proposito?
Non conosco approfonditamente il sistema sanitario e il sistema di assistenza psichiatrico Usa. Posso però dire che c’è una sottile linea di confine tra una sofferenza comprensibile e giustificata da eventi sfavorevoli come lutti, separazioni difficili, problemi economici gravi che può comportare anche reazioni rabbiose o sfiducia verso il prossimo e che però nel tempo si risolve e un altro genere di sofferenza che può legarsi a eventi esterni occasionali ma ha radici molto più profonde e può sfociare in comportamenti come quelli di cui parliamo.
A cosa si riferisce? Ci aiuti a capire meglio.
Mi riferisco a situazioni che hanno origine nei primi anni o mesi di vita e che nel tempo vanno progressivamente verso la strutturazione di una personalità rigida, fredda, chiusa ai rapporti. Queste persone possono avere comportamenti anche manifestamente aggressivi o poco usuali che fanno intuire la loro condizione ma spesso il loro star male non consiste nel fare cose negative, devastanti, distruttive, quanto piuttosto nel perdere qualcosa, perdono soprattutto affetti, perdono entusiasmi, interessi, si chiudono. Questa perdita di rapporto con la realtà – e con la realtà umana in modo particolare – non viene colta perché non ha un impatto immediato sul contesto sociale, non ha riverberi immediati sul quieto vivere delle persone “normali” ma proprio questa perdita di rapporto con la realtà umana è forse il problema più grande da cui poi queste tragedie scaturiscono.
Ci sono degli aspetti ricorrenti nelle storie di questi giovani che compiono stragi?
Un elemento che ricorre spesso è la giovane età degli autori di questi delitti. Penso che questo aspetto andrebbe sottolineato perché potrebbe avere una grande importanza dal punto di vista della prevenzione. In un ragazzo i segnali di questa sofferenza possono essere poco evidenti ma non del tutto inesistenti e spesso i compagni di scuola o gli amici raccontano di aver osservato la chiusura o la freddezza di queste persone che in un primo momento non sanno integrarsi e poi, abbandonate al loro destino, non vogliono più integrarsi.
È diverso nel caso di adulti?
Intercettare un adulto che vive questa condizione è molto più difficile perché ha ormai organizzato delle strategie per sembrare assolutamente “normale” ma Salvador Ramos aveva 18 anni. Per la legge era in grado di badare a sé e comprare armi, tuttavia nei pochi anni precedenti il suo gesto nessuno aveva “badato” a lui in modo adeguato e questa credo sia stata una grande carenza. Aveva una madre tossicomane che l’aveva affidato ad un nonno che non aveva notato nulla di particolare, neanche l’acquisto di due fucili d’assalto. Aveva lasciato da tempo la scuola ed era disperatamente solo e deciso a fare qualcosa di “speciale” in un mondo che per lui era un posto insopportabile. Direi che in mancanza d’altro almeno l’abbandono scolastico doveva essere intercettato dalle istituzioni e affrontato in qualche modo. Per le situazioni di cui stiamo parlando la prevenzione è fondamentale e possibile direi e non solo in America.
Viene da domandarsi quanto una certa cultura possa essere patogena. Quanto possa ingenerare rassegnazione rispetto alla violenza spingendo a pensarla come ineluttabile. Lo scrittore Andrea Bajani racconta che nelle scuole in Texas si fanno esercitazioni anti mass murder, come da noi si fanno quelle anti incendio. Che messaggio ricevono i ragazzini americani?
Ricevono un messaggio certamente angosciante. A questo proposito mi tornano in mente le parole dello scrittore Joe Lansdale che, intervistato da Repubblica, ha preconizzato: «Non cambierà nulla. Questa strage non darà il via a una riduzione delle armi. Anzi, al contrario, sarà seguita da una ulteriore liberalizzazione». Speravo che si sbagliasse ma ho letto e ascoltato notizie che confermano questa previsione. In risposta alla strage molte persone si sono limitate a dire: ci sono dei mass murders, meglio prepararsi, cioè armarsi. Come dire che nel 2022, nella nazione che si dice la più evoluta e ricca del mondo, per molte persone è pensabile che si possa rischiare la vita andando a scuola o al supermercato. Una proposta di accettazione di una realtà simile certamente può spingere ad “avvicinarsi” alla realtà dell’aggressore.
Potremmo dire che c’è qualcosa nel mito fondativo degli Usa che spinge in questa direzione?
Possiamo immaginare che il mito delle armi negli Usa sia nato perché molti coloni dovevano vivere in territori sconosciuti e difendersi da una natura a volte ostile in cui peraltro venivano inclusi, senza troppi problemi, anche i nativi. La guerra di indipendenza ha poi avuto un suo peso perché era importante che anche i civili vi partecipassero attivamente e che fossero armati. Dunque le armi sono state per lungo tempo importanti per molti statunitensi. Oggi che non ci sono più orsi, lupi e altro, però, oltre all’idea di un pericolo sempre presente che sembra ancora attuale, vedrei un altro atteggiamento da considerare.
Vale a dire?
Chi decide di possedere un’arma e di usarla se lo riterrà giusto, evidentemente pensa che la realtà in cui vive sia veramente pericolosa e che dovrà essere in grado anche di difendersi da solo da questo pericolo. Cioè gli esseri umani sono pericolosi e, peggio ancora, lo Stato, le sue leggi e, aggiungerei, i suoi principi, non sono in grado o forse non si occupano di modificare o migliorare questa situazione. Vedo una abdicazione delle istituzioni ad affrontare la violenza se non con la repressione ed eventualmente la punizione che si fonda presumibilmente su un’idea di realtà umana violenta e sempre a rischio di cadere nella pazzia, una realtà non modificabile ma solo controllabile, malamente, con la forza. Penso anche però che ci siano molti americani che non vogliono armi, che non le usano. Ci sono americani che vivono e pensano diversamente, ma è come se non avessero voce, non so perché. Questo pensiero che ci sia il “male” negli esseri umani deve avere una grande presa Oltreoceano.
Pensiero economico neoliberista e pensiero religioso si intrecciano negli Usa. L’ideologia del self-made man incontra quella protestante. Lettura troppo azzardata?
Lettura impegnativa, certo il pensiero neoliberista e quello protestante hanno in comune l’idea che l’autoaffermazione sia oltre che un diritto, se non proprio un dovere, un compito a cui non ci si deve sottrarre e che testimonia sia della validità e delle qualità umane che della adesione ad un volere divino. Si tratta però di un’autoaffermazione che tiene poco conto di un impegno o attenzione verso la società per privilegiare il valore del singolo, che si realizza spesso in una continua competizione con gli altri. Vincere e perdere sono concetti molto utilizzati negli Stati Uniti e molto pericolosi. In certi ambienti per vincere si può fare di tutto e il cinema lo ha raccontato in molti modi. A me piace pensare invece a situazioni in cui se vince qualcuno vincono tutti, come quando si trova un accordo utile a tutti i contendenti, quello che in Ucraina sembra ancora lontano.
Gli Usa passano per essere il Paese della democrazia e della libertà. Vari presidenti hanno preteso anche di esportare questi valori. E lo hanno fatto con violenza invadendo l’Iraq, l’Afghanistan…
Questa idea di esportare la democrazia con le armi in realtà ha sempre voluto dire agire per la sicurezza e la prosperità americana. Non è vero che gli Usa siano il Paese della libertà. Gli Stati Uniti impongono delle limitazioni partendo da princìpi molto discutibili, come il divieto sull’aborto che si sta estendendo sempre di più a scapito della autodeterminazione delle donne o come il divieto per i diciottenni di acquistare alcolici ma non armi. Una strana coesistenza di libertà e divieti che è difficile comprendere se non orientandosi verso scelte fortemente legate ad un pensiero religioso che si lega ad un’idea di benessere molto attento alla realtà materiale e molto distratto riguardo ad altre dimensioni umane molto importanti come quelle che sono mancate ai ragazzi di cui abbiamo parlato.
A proposito di moralismo nordamericano, Eva Cantarella, che ha insegnato per anni negli Usa, nota che anche corteggiare una donna viene letto come un gesto oltraggioso e sui mezzi pubblici viene stigmatizzato anche uno sguardo “di troppo”.
In certi Stati tempo fa era condannata la fellatio ma non so se la legge sia ancora in vigore. Un controllo ossessivo sulla “moralità” dei cittadini nella nazione che si diceva la più libera di tutte. È come se ci fosse una enorme difficoltà ad andare oltre la visione “materiale”, piatta, dei rapporti e dei movimenti degli esseri umani. La realtà materiale dei fatti senza il suo contenuto è muta, priva di senso e non si può fare altro che limitarla al massimo non potendo conoscere nulla di ciò che contiene. Una carezza può essere un gesto d’amore o una prepotenza e dunque si deve decidere se accettarla o meno, ma si potrebbe osservare che anche un consenso scritto a questo gesto non può garantire nulla riguardo al contenuto psichico e affettivo. La cecità riguardo alla psiche umana fa muovere le persone come se brancolassero nel buio dove tutto può essere pericoloso.
Come mai anche movimenti nonviolenti e antirazzisti sono caduti nella trappola di una ribellione violenta, nella idea di farsi giustizia da sé? Manca loro una visione diversa dell’essere umano? Una prospettiva di cambiamento possibile?
Penso di sì. Anche il movimento antirazzista ha avuto delle derive. In America è stato prevalentemente un movimento nonviolento, in quel modo ha realizzato le sue più grandi conquiste però ha avuto anche momenti di distruttività, di rabbia, certo molto legati a eventi drammatici, come uccisioni da parte dei poliziotti. È vero però che per sostenere una scelta di nonviolenza è necessario comprendere la violenza come cercavo di dire prima, e soprattutto comprendere la violenza psichica per comprendere non solo la violenza che si subisce ma anche quella che in certe condizioni si può agire sugli altri.
Allargando lo sguardo anche ad altre zone del mondo si nota come istituzioni repressive riescano a pervertire movimenti nati come nonviolenti. Penso al movimento degli ombrelli gialli a Hong Kong. «Ci avete insegnato voi cosa è la violenza» hanno scritto i manifestanti sui muri delle istituzioni cinesi. È una sconfitta quando un movimento non violento accetta la logica dell’oppressore.
Di fronte alla violenza dell’oppressione, di fronte alla repressione a volte ci si riempie di rabbia. Ci si identifica con l’aggressore perché si accetta che l’unica dialettica possibile sia quella imposta da quest’ultimo. È una questione molto delicata…. Alzare una barricata è un gesto che si può capire, sparare agli agenti non è accettabile.
Anche in Italia c’è tutto un filone del pacifismo che usa la nonviolenza come prassi, praticando l’obiezione di coscienza, la diserzione, c’è un rifiuto di imbracciare le armi. È una tradizione che ha una sua dignità, che ne pensa?
Assolutamente! Questo è del tutto condivisibile. Tuttavia oltre a praticare l’obiezione in questi termini c’è da fare un percorso e un lavoro per affrontare le motivazioni per cui si arriva ad essere costretti ad imbracciare le armi o opporsi a qualcosa di non accettabile.
Che differenza c’è tra pacifismo e nonviolenza?
Il pacifismo è praticabile in una società democratica in cui puoi fare un lavoro sulle idee, sulla cultura della gente e convincere grandi masse di persone ad orientarsi in un certo modo ed è ovviamente il percorso privilegiato per arrivare a cambiare la realtà. La nonviolenza è un concetto molto più complesso per cui deve essere legata a un rapporto con la realtà ben preciso. L’atto del medico che incide, che tocca il corpo della persona, in sé potrebbe essere considerato come atto violento. In realtà per la finalità che ha non lo è. Ci sono delle situazioni, delle circostanze, per cui la trasformazione della realtà cui si tende deve essere realizzata con un rifiuto della realtà presente e attuale, altrimenti non ci si arriva.
Un esempio?
Lo psichiatra Massimo Fagioli ne faceva spesso uno: se qualcuno sta per farsi del male, sta per buttarsi da un ponte o sta per fare del male ad altri o a un bambino si usa la forza per impedirglielo. Questo avevo cercato di proporre nell’articolo che ho scritto per Left (ora riproposto nel libro L’Arte di costruire la pace, ndr). Per fermare il gesto suicida o omicida di una persona è possibile doverla contenere ma per il bene della persona stessa e delle eventuali vittime. Dunque il concetto di nonviolenza è molto più esteso, si declina in modo diverso e più ampio del pacifismo assoluto. Penso però che anche il movimento pacifista faccia la propria elaborazione su come svolgere una dialettica con la realtà. Il concetto che può unire pacifismo e nonviolenza è la modalità con cui ci si confronta con la realtà per trasformarla. Siccome la necessità di affrontare e trasformare la realtà in certi casi è stringente – come vediamo in America – su questo bisogna intendersi e ci si può intendere. Credo che per tutto quello che ci siamo detti quello che caratterizza le azioni umane sia l’intenzione più o meno visibile che le sostiene. La ricerca non può che essere questa.
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