L’esilio volontario, per liberarsi della Chiesa e dell’impero britannico, l’interesse per Giordano Bruno, la ricerca letteraria. Enrico Terrinoni racconta i mesi cruciali che lo scrittore irlandese visse a Roma

Tra i massimi traduttori delle opere di Joyce in italiano e ordinario di letteratura inglese all’Università per Stranieri di Perugia, Enrico Terrinoni ha scritto un bruciante libro su Joyce a Roma: Su tutti i vivi e i morti (Feltrinelli). Non è una biografia, non è un saggio, non è un romanzo, ma un’opera originale, appassionata e appassionante, che nasce dalla fusione di generi diversi. Squisitamente joyciana questa piccola «opera mondo» si è già guadagnata il Premio De Sanctis ed è entrata nella terna del Premio Viareggio. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Enrico Terrinoni, come si appresta a festeggiare il Bloomsday del 16 giugno 2022, anno del centenario dell’Ulisse di Joyce?
Sarò a Dublino a presentare un libro che ho curato assieme a Declan Kiberd e Catherine Wilsdon dal titolo The book about everything. L’Ulisse di Joyce è infatti un libro che riguarda ogni aspetto della vita, da quelli visibili a quelli invisibili, il pensiero, il sogno. E che ci riguarda tutti. È un libro in cui possiamo sempre ritrovarci, ma anche perderci. Per questo abbiamo deciso di mettere insieme un gruppo di diciotto scrittori, intellettuali, artisti e anche professionisti – uno chef, un’ostetrica… – nomi non necessariamente associati a quello di Joyce, assegnando a ognuno un episodio del libro da rileggere. Da loro abbiamo ricevuto una serie di letture interessantissime, provocatorie, eretiche, molto sui generis proprio perché non provengono da joyciani di professione ma da lettori che hanno la voglia e il coraggio di cimentarsi ancora con questo mostro sacro della letteratura. Tra gli autori Jhumpa Lahiri, Joseph O’Connor, Tim Parks, Edoardo Camurri, e poi il grande filosofo Richard Kearney, il brillante economista David McWilliams e tanti altri amici. Festeggeremo il Bloomsday così, cercando di restituire l’Ulisse alla gente, a quei lettori eterogenei per cui Joyce l’ha scritto, strappandolo se vogliamo alle mani esclusive ed esclusiviste degli esperti.

Anche quest’anno è difficile pensare questa data senza Giulio Giorello, filosofo laico, amante dell’Irlanda. Un suo ricordo del vostro incontro

A Giulio ho dedicato la mia ultima traduzione bilingue di Ulisse. Era un uomo straordinariamente generoso, soprattutto con i giovani. Un pensatore libero, curioso, affascinato dalla sfida di sondare strade pericolose. La prima volta che ci vedemmo fu a Firenze, per presentare il mio primo Ulisse assieme a Riccardo Michelucci. Ne aveva parlato bene proprio su Left e diventammo subito amici. Poi abbiamo fatto tanti viaggi e conferenze in Italia e in Irlanda. Proprio con lui e Riccardo avremmo dovuto presentare gli scritti di Bobby Sands al Salone di Torino, e per questo lo chiamammo da Dublino il giorno delle elezioni del febbraio 2019. Ci disse che era entusiasta di venire. Per lui Bobby era il simbolo più autentico della libertà e del coraggio. Fu l’ultima volta che lo sentii. Ci manca immensamente.

In questa sua biografia letteraria di Joyce a Roma lei tratteggia anche alcuni aspetti dei suoi esordi. Quanto contò l’incontro con Yeats e poi con Pound? Si emancipò da loro?

Possiamo certamente affermare che senza di loro non avremmo oggi il Joyce che conosciamo. Fu Yeats a credere in Joyce e a convincere il grandissimo Pound a puntare su di lui. Malgrado l’aneddotica del primo incontro e qualche giudizio iniziale giovanile possa non dare questa impressione, per Yeats Joyce nutrì grande stima sempre. Anche negli ultimi anni, era in grado di recitare per ore le sue poesie. Per Pound rimase l’amicizia nonostante la sua deriva fascistoide che Joyce prese in giro a più riprese e che non poteva condividere. Non credo tuttavia che né Yeats né Pound ebbero un’influenza sostanziale su Joyce dal punto di vista stilistico o letterario. Lo aiutarono a inserirsi nel panorama internazionale delle lettere e a condurre battaglie rilevanti. Yeats ebbe, per il primissimo Joyce, una qualche importanza per via del comune interesse per l’esoterismo; e di certo l’afflato celticheggiante del Finnegans wake deve molto anche alle ricerche e alle scoperte di Yeats. Di Pound invece non risulta che ammirasse più di tanto la poesia. Ne ammirava la capacità manageriale e il genio editoriale.

Joyce fu sempre in esilio. E al contempo dall’Irlanda non si separò mai con la mente. Mai con il cuore. Come lei scrive in Su tutti i  vivi e i morti. Quella lontananza – vicinanza fu il motore della sua opera?

Ci avviciniamo sempre a quello che ci spaventa, altrimenti non avrebbero tutto questo successo i film horror. Joyce lasciò l’Irlanda per via di due forze che ne minavano la libertà e lo sviluppo morale, intellettuale e politico: l’impero britannico (o «brutannico», come dice lui) e la Chiesa cattolica romana. Se abbandonò l’Irlanda fu per sfuggire ai tentacoli di queste forze, non perché non si sentisse irlandese o perché odiasse il suo Paese. Al contrario, con la propria opera voleva far aprire gli occhi innanzitutto al suo popolo, e poi, in seconda battuta, a tutti noi. L’esilio è un tratto caratteristico di tanti scrittori irlandesi, pensiamo a Beckett o al grande Brendan Behan che disse «L’Irlanda è un gran bel posto… da cui ricevere una cartolina». A volte la lontananza serve a tenere acceso un fuoco, a mantenere in vita una scintilla capace di incendiare. Tanti grandi rivoluzionari vissero in esilio, e forse possiamo considerare la condizione dell’esule affine a quella del rivoluzionario. Per vedere meglio, a volte bisogna allontanarsi un po’ dall’oggetto che si osserva. La vicinanza deforma, anche se, come ci spiegano i fisici della materia, consente di vedere le dinamiche microscopiche. Ma poi, alla fin fine, è con quelle macroscopiche che dobbiamo fare i conti. 

Perché prima del suo libro la vicenda di Joyce a Roma era rimasta un “buco nero degli studi”?

Roma è un luogo “strano”. Così ne parla negli appunti del suo unico dramma Exiles – che può significare “esuli”, “esiliati” o persino “esilii”. Strano perché riproduce l’abbraccio di quelle due forze da cui era fuggito, una monarchia al comando e la Chiesa di Roma. Più che un buco nero degli studi su Joyce – perché di libri e articoli accademici di grande rilievo ce ne sono eccome – direi che fino ad ora Roma non era stata messa al centro dell’esistenza e degli sviluppi della carriera di Joyce per un pubblico non specialistico. E invece ha un posto centrale, perché è a Roma che Joyce ha l’idea di scrivere qualcosa dal titolo Ulysses, a Roma nasce nella sua mente The Dead, Roma è il luogo dell’esilio della coppia autobiografica protagonista di Exiles che abbandona Dublino, a Roma abbiamo le prove di una maturazione di una coscienza politica di stampo socialista, e così via. In virtù di certi suoi giudizi spietati sulla capitale, si è voluto dare l’impressione che Roma non fosse centrale per Joyce, ma non è così, come dimostra una meravigliosa parola inventata del Finnegans wake, “Jeromesolem”, che fonde insieme Gerusalemme, Roma, san Girolamo e forse persino Salem con i suoi ricordi di streghe condannate a morte. Insomma, Roma fu per Joyce un luogo del trauma, ma non è detto che non sia il fulcro della sua esperienza letteraria.

Joyce arrivò nella Capitale solo per trovare un lavoro bancario che gli consentisse di vivere più decentemente o anche per una ricerca più personale sulle orme di Giordano Bruno e del suo universo infinito?

Entrambe le cose. Come sempre, nel suo caso, motivazioni pratiche si mescolano a intenzioni profonde. Bruno era presente nel suo immaginario già da molto tempo prima. Nel 1903 Joyce recensì puntualmente uno studio su Bruno che ha una importante sezione biografica, e il Nolano è già citato in Stephen Hero, l’opera che è alla base di Un ritratto dell’artista da giovane, ossia il Dedalus. Bruno sarà poi sempre più presente in Ulisse e nel Wake. Da Bruno, Joyce trae l’idea che viviamo in un mondo umbratile, dai contorni sfumati, e che vivere nella luce ci accecherebbe. Da lui prende il coraggio e l’audacia di sfidare tutto e tutti. Fu Bruno, a mio avviso, a insegnare a Joyce che da un universo infinito non può che procedere l’idea di una mente infinita, «immarginabile» come si legge nel Wake, e dunque di un linguaggio anch’esso infinito, perché la nostra mente è strutturata linguisticamente. Poi, Joyce ventiquattrenne andò a vivere a due passi dall’ultima prigione di Bruno a Tor di Nona. Una coincidenza strabiliante. Mi ricorda quando, a vent’anni, mi trasferii a Dublino e presi casa a due passi da dove era nato e cresciuto il mio scrittore preferito, Brendan Behan.

L’educazione cattolica ebbe un enorme peso su di lui ma cercò una emancipazione dall’obbedienza alla Chiesa. Si liberò anche del pensiero religioso?

Joyce si allontana dalla Chiesa, ma non dalla religiosità intesa in quanto campo di azione della spiritualità. Sappiamo che era estremamente superstizioso, e questo è un aspetto della trasformazione di quel suo esser stato profondamente religioso. Continuano a interessarlo sia i dibattiti teologici sia la ritualità, ma ovviamente l’astio nei confronti dell’istituzione fa sì che le strutture religiose rimangano, nella sua mente, appunto delle strutture, delle impalcature. Fondamentali per la sua scrittura, ma svuotate da una qualunque fede. I suoi testi, soprattutto quelli della maturità, sono a loro modo dei testi “sacri” e misterici. Non sono letteratura nel senso stretto del termine. Puntano continuamente a rivelare “ri-velando”. A Joyce non interessa una didattica spicciola, non interessa dare istruzioni su come vivere o intrattenere, o farsi dire bravo. Lui mira a renderci individui emancipati, consapevoli della propria libertà, padroni delle nostre scelte.

Dalle lettere di Joyce al fratello Stanislaus rimasto a Trieste dopo il trasferimento dello scrittore a Roma in qualche modo sembra di vedere la trama del rapporto “complesso” fra Vincent van Gogh e suo fratello Theo. Che ne pensa?

È un parallelo interessante, perché entrambi credettero ciecamente nei rispettivi fratelli geniali. Ma Theo fu sconvolto dalla morte di Vincent mentre Stannie lo fu dal cambio di rotta di Joyce, quando abbandonò la strada dell’iperrealismo di Ulisse per inoltrarsi nelle selve dell’inconscio sognante e “incubista” del Wake. Stannie rifiutò, per poi pentirsene, la copia del Finnegans che James si offrì di fargli avere. Poi morì nella notte tra il 15 e il 16 di giugno del 1955, ossia a Bloomsday. Senza Stanislaus, Joyce non avrebbe vissuto come ha vissuto nei primi anni difficili a Trieste e a Roma. Mi piace però ricordare un altro rapporto simile tra fratelli, quello tra Elio ed Ettore Schmitz (Italo Svevo). Anche Elio come Stannie annotava in un taccuino “le gesta” del fratello maggiore per il quale aveva un affetto assoluto – e ricambiato.

Come legge il rapporto di Joyce con Nora?

Nora è la musa ispiratrice di Joyce. Non solo lo accompagna, lo segue, lo sorregge, ma lo rimprovera, lo insulta, lo rimette al suo posto. Da lei Joyce importa nella sua scrittura un immaginario legato all’Irlanda dell’ovest, quella più a contatto con la cultura gaelica. Da lei trae l’ispirazione per la scrittura del cosiddetto flusso di coscienza, senza punti o virgole. Molly Bloom è in gran parte Nora Barnacle. È Nora a suggerire a Joyce, a mio avviso, che ogni uomo ha in sé una parte femminile, proprio come ogni donna conserva aspetti maschili. Questa verità lapalissiana, che la psicologia ha scandagliato, ancora fatica ad essere accettata da chi è ossessionato dall’idea di un’identità fissa e marmorea dell’umano. Joyce, grazie a Nora, ci dice che “identità” è una parola falsa, perché parla di differenza e non di essere identici ad alcunché.

A Trieste nacque sua figlia Lucia, concepita a Roma tra il 1906 e il 1907. Lui che aveva drammatici problemi di vista, scelse religiosamente questo nome. Che rapporto ebbe con questa figlia che si ammalò di schizofrenia?

Lucia è anche il personaggio di un romanzo di Svevo che Joyce amava. Non sappiamo abbastanza di Lucia, e non c’è da fidarsi troppo delle tante speculazioni romanzate che circolano. Joyce amava sua figlia più di ogni altra cosa, lo dimostrano i documenti e i fatti. Letteralmente, si svenò per lei, e fece di tutto per portarla con sé a Zurigo quando era confinata in una clinica nella Francia occupata. Non ci fu attimo della sua vita in cui non pensò alla figlia sfortunata e geniale. Non sappiamo neanche bene di cosa soffrisse. Anche in quel campo, in gran parte ci fidiamo di speculazioni e diagnosi sommarie. Di certo, Lucia è per Finnegans wake quel che Nora era stata per Ulysses. Per Joyce fu una musa, un pensiero costante, una guida nell’oscurità in cui avrebbe brancolato senza di lei.

Disegno di Vittorio Giacopini

L’intervista prosegue su Left del 10 giugno 2022 

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