L’arte cinematografica, fin dai suoi esordi, ha esercitato un grande fascino su artisti e compositori e così è stato per Nino Rota che, a dispetto della sua solida formazione accademica, si è pienamente espresso nella composizione di colonne sonore, collaborando con alcuni dei più grandi registi contemporanei nella realizzazione di veri e propri capolavori del cinema, in particolare con Federico Fellini e Francis Ford Coppola. Grazie alla sua apparente semplicità e alla grande vena melodica, la musica di Rota ha ispirato, e continua a farlo, tanti musicisti dalle estrazioni più disparate, sia in Italia che all’estero. Tra coloro che hanno dedicato al compositore un intero album ricordiamo Enrico Pieranunzi, Fabrizio Bosso con la London Symphony Orchestra, Salvatore Bonafede, Gianluca Petrella, Richard Galliano, Ekkehard Wölk, i Sex Mob e gli Avion Travel. A questa produzione discografica, da qualche mese, si è aggiunto il bel lavoro di Cristina Zavalloni & ClaraEnsemble, Parlami di me – Le canzoni di Nino Rota, prodotto da Egea Records. Cantante e compositrice bolognese, Zavalloni è un’artista affermata a livello internazionale che si è espressa nella danza, nel grande teatro contemporaneo, nella pura sperimentazione e nel jazz. Per oltre venti anni ha ispirato il compositore olandese Louis Andriessen e si è dedicata con amore ai repertori di Berio, Schönberg e Poulenc. In questo ultimo cd, realizzato insieme ai ClaraEnsemble, Cristina ha scelto il colore e i brani che lo compongono mentre Cristiano Arcelli ne ha scritto gli arrangiamenti.
Cristina Zavalloni, cosa ti ha spinto a dedicarti a questo lavoro? Condividi l’affermazione che la musica di Rota sia “non catalogabile”, ragion per cui sarebbe un autore sempre attuale?
Meno male che non possiamo incasellare alcuni musicisti: Rota è talmente “non catalogabile” che io non ci avevo mai pensato, a un certo punto mi è risuonata una fascinazione per una musica semplicemente bella. Se poi vogliamo fare un’analisi razionale e ci chiediamo il perché di questa bellezza oggettiva, possiamo dire che la ragione si trova nella felicità della sua intuizione melodica, poesia pura direi, accompagnata come nel nostro caso, da testi geniali che vanno dritti al cuore, mai banali, che infatti sono il frutto della penna di grandi menti. Più le menti sono grandi, io penso, e più riescono a mettersi al servizio della semplicità più assoluta. Il segreto di una bella canzone che resta immutato nel tempo risiede in poche note felici e poche parole che toccano il cuore, che la rendono di conseguenza facilmente traducibile in moltissime lingue, che diventa un ponte tra le diverse culture, come è successo per Rota. Andando più in profondità nell’analisi musicale, si può dire che ci troviamo davanti a un vero compositore che ha una grande scuola alle spalle, con basi accademiche profonde ma anche con tanto mestiere.
Possiamo dire che Rota sia stato un musicista che ha introdotto molte novità nelle sue orchestrazioni in ambito cinematografico, soprattutto nelle timbriche e tipologie strumentali, come chi è avanti rispetto ai suoi tempi?
Sì, certamente, è stato uno dei primi compositori a portare tutta questa sapienza classica, accademica, al servizio di un’arte popolarissima. Direi una persona risolta, che non aveva bisogno di dimostrare niente. Non si sentiva certo depauperato nel mettersi al servizio dell’immagine, non ha avuto un ego che interferisse ed è stato forse questo il segreto del lungo rapporto con il grande Federico Fellini, che in quanto ad ego…
Il mio amico magico, come amava dire Fellini…
Sì (ride) Nino Rota, l’amico magico, come tra l’altro è intitolato l’omaggio degli Avion Travel a Rota, uno dei miei riferimenti nella preparazione di questo lavoro.
Ascoltando il tuo disco, stupisce il passo lieve che conduce, un movimento rispettoso e onesto, sobrio.
Mi sono tenuta un passo indietro? In effetti l’ho sentito molto naturale, così come quando mi rapporto, come interprete, alla musica di un grande compositore, vivente o no, a differenza di quando sono leader di un mio progetto jazz, terreno in cui mi do carta bianca. In questi casi mi sbizzarrisco a introdurre colori diversi, anche teatrali ed emotivi. Ma negli ultimi tre lavori discografici realizzati a partire dal 2020, un periodo speciale e molto raccolto per tutta l’umanità, si può dire che il mio atteggiamento sia stato lo stesso. Parlo di For the Living con Jan Bang, Parlami di me dedicato a Rota e di PopOFF!, il lavoro con Paolo Fresu dedicato alle canzoni dello Zecchino d’Oro. Tre lavori in ambiti molto diversi in cui ho cantato mettendomi al servizio della musica di altri, con la stessa onestà espressiva. E mantengo questo atteggiamento sacrale anche nel mio brano “Prova tu”, perché questo è il mio tempo, più intimo che estroverso.
Il brano “Prova tu” è l’unica composizione originale contenuta nell’omaggio a Rota. Molto intenso e ispirato, si mescola con gli altri brani senza soluzione di continuità, sia per ricerca melodica che per poesia, affiancandosi a testi come quelli di Lina Wertmüller, Elsa Morante, Antonio Amurri, Michele Galdieri.
Senza falsa modestia o finta umiltà, sono d’accordo. Non che sia un capolavoro, ma sento anch’io questa fusione di tutto il lavoro, il mio rapporto con la scrittura è sempre stato buono, ma questo parto è stato proprio naturale e felice, tanto che sono tornata a casa da una breve passeggiata scoprendo di aver scritto un ottimo brano.
Ti sei fatta delle domande?
Certo, e ho trovate le risposte nella semplicità del contesto in cui mi andavo a inserire, questa chiarezza melodica, armonica e testuale in cui ero immersa. Forse una delle difficoltà in cui invece ci troviamo oggi noi musicisti jazz o di musica contemporanea è di vivere una fase di frammentazione, non essendoci una direzione, una comunità di riferimento o una grande scuola. Pensiamo agli artisti fiamminghi o ai movimenti artistici dell’Ottocento; quando ci sono le grandi scuole è più facile che si affermi il grande genio, che non viene mai dal nulla ma che si situa nel solco di una scuola di pensiero, dalla quale prende stimolo e dalla quale si separa criticamente.
In assenza di un simile contesto tutto diventa più difficile?
Sì, perché l’essere umano ha bisogno di sentirsi parte di un tutto. Per ritornare a “Prova tu”, avevo molto chiaro il contesto in cui dovevo collocare il mio brano, una musica tanto bella e così ben congegnata da farmi sentire guidata. Mi sono lasciata andare, sfruttando la corrente e non cercando di contrastarla, risalendo il fiume come il salmone.
La tua è una ricerca sull’identità umana prima che artistica? Come se gli stili o i progetti che crei per poterti esprimere partissero da un nucleo originario di cui ti prendi cura e che difendi?
Sì, certo, e la cura e la difesa di noi donne non finirà mai. Forse oggi sento addosso il peso di un vissuto passato a dover dimostrare, convincere che ciò che facevo non era una scelta, ma l’unica possibilità di essere. Il trascorrere del tempo, poi, ha rafforzato la mia identità umana e artistica e non mi sfiorano più questi pensieri, ma a vent’anni, alle audizioni, sentirsi dire spesso “tu non riuscirai, non sei la moglie di Berio” richiedeva tanta resistenza. E poi Cathy Berberian, la moglie di Berio, è stata il faro della mia vita… Non è stato facile, ogni tanto mi sono dovuta fermare a riflettere, mi sono messa in ascolto e ho capito che quella ero io, sono io, con quel modo curioso di incedere ma sempre onesta, con la mia anima che a volte può essere dolente (e allora ho realizzato un disco come For the Living), ma che è stata per anni anche esplosiva e quindi ha dato vita a sperimentazioni estreme, oppure come in questa fase della vita in cui mi sento più pacificata, mi scopro felice a cantare belle canzoni in italiano. Non riesco ad ascoltare niente che non sia nella mia lingua, non mi interessa nessun mascheramento, niente che non mi parli di quello che sono e dove sono. Forse la maternità ha cambiato le mie esigenze, ma non la libertà dell’espressione artistica.
Come si realizza nelle scelte artistiche questa libertà?
Io vado avanti dritta, se sento che una cosa è giusta non mi fermo davanti a niente. E perché sia giusta mi deve emozionare, la devo sentire nel profondo, qualcosa mi deve commuovere perché io accetti un lavoro. In caso contrario sarei un disastro, non riuscirei.
Interpreti, componi musica, sei autrice di testi, improvvisi, qual è il peso della scrittura in tutto ciò e come hai vissuto la formazione teorica fatta a suo tempo?
Il peso della scrittura è enorme per me, soprattutto oggi. Ho studiato composizione ed è stato un percorso bellissimo, poi mi sono fermata, ho lasciato il conservatorio perché mi si è aperta la possibilità di fare esperienza sul campo con Andriessen e non era un treno che potevo perdere e quindi sono partita.
Un lungo sodalizio artistico quello con il compositore olandese Louis Andriessen, che ha scritto per te dei veri capolavori.
Si, ho lavorato per più di venti anni con uno dei più grandi maestri, sono stata la sua musa, come lui mi diceva, che è una cosa molto lusinghiera ma la verità è che, come musa, sono stata un po’ una schiava, di lusso, ma una schiava. Sì, perché ero totalmente al servizio della sua creatività, del suo estro. Riuscivo a liberarmi dalla sua gabbia di platino proprio attraverso i miei progetti di musica jazz che mi proiettavano in una dimensione diametralmente opposta. La gabbia non era solo interpretativa, dell’esecutore di musica classica, ma anche data dalla particolare vocalità che mi richiedeva e che mi costringeva a un colore solo. Dopo qualche anno dalla nascita di mia figlia è stato chiaro a tutti e due, d’amore e d’accordo, che il nostro rapporto sarebbe diventato altro, una grande trasformazione che richiedeva una fase nuova. Ritengo comunque di aver avuto una fortuna sfacciata per aver potuto vivere questa enorme esperienza.
Non più un colore solo della voce, ma la libertà di poter cercare, di volta in volta, dentro di sé.
Ora non ho più bisogno di urlare per farmi sentire o di agitarmi per farmi vedere. Sono cambiate le mie motivazioni del fare musica e viene fuori quello che c’è, quando c’è… è tutto più naturale. Lavoro tantissimo sul respiro, cerco il fluire libero e mi godo anche il silenzio.
Cosa ci racconti del nuovo duo con il tubista Michel Godard?
Stiamo lavorando ad un nuovo disco che sarà pubblicato con calma. Il nostro rapporto è emblematico, ci siamo conosciuti quando avevo diciotto anni ed è stato il primo ospite del mio primo disco di jazz. Ci siamo frequentati e poi persi negli anni, poi un incontro di una sera e una improvvisazione insieme… dapprima mi sono schernita ma poi lui ha insistito e da quel momento il filo si è tenuto ben saldo. Ho capito che sto bene solo quando improvviso in totale libertà, dire “free” non vuole dire niente di questi tempi se non un esercizio di stile, mi riferisco alla libertà da qualsiasi costrizione armonica, che è invece la prerogativa di tanto jazz. Insegno ai miei studenti tutte le regole per poter improvvisare jazz ma poi io la pratico fuori da ogni schema, come ricerca di un colore, di un’espressività teatrale, di effetti. L’improvvisazione per me è l’estemporaneità del vissuto sul palco, è l’avventura con gli altri musicisti con cui ci si intende al volo, è riuscire a stupire con qualcosa di insolito, non programmato. Con Michel ci vogliamo bene, sai è una cosa seria volersi bene e se non sento questa cosa qui io non riesco a fare più la musica, anzi non mi interessa più farla. In poche parole… ci deve essere amore.
In apertura Cristina Zavalloni nella foto di Marcella Fierro. Nel testo la cover dell’album
In tour
5 agosto: Cristina Zavalloni “For the Living + Eivind Aarset” (Valsamoggia) https://www.frb.valsamoggia.bo.it/cortichiesecortili/eventi/ccc36-18/
6 settembre: Cristina Zavalloni – Manuel Magrini “Parlami di me”(Legnago)