Il terreno è un habitat vitale, ricco di micro-organismi, come batteri, funghi, protozoi, nematodi, ma anche insetti, ragni, vermi, molluschi. Uno studio della Fao, dal titolo “State of Knowledge of Soil Biodiversity – Status, Challenges and Potentialities”, mostra come il suolo sia uno dei principali serbatoi di biodiversità del pianeta: circa un quarto delle specie si trova nel suolo e il 40% degli organismi viventi negli ecosistemi terrestri trascorre la propria vita, o parte di essa, nel suolo, inclusi rettili, anfibi, mammiferi. Il suolo inoltre ospita le radici delle piante. La presenza di funghi, piante e animali nel suolo e la loro decomposizione contribuisce alla formazione di humus e altre forme, più o meno complesse, di sostanza organica, che consentono la conservazione della biodiversità, l’agricoltura, il pascolo. La stabilità dei suoli e la sostanza organica influiscono sull’effetto serra, contribuendo a mitigare i cambiamenti climatici. La qualità del suolo, insomma, si ripercuote direttamente sulla qualità della vita degli esseri umani.
Il cemento avanza e divora il terreno, ma bisogna considerare quindi questo ulteriore problema complementare: il degrado del suolo. L’ultimo rapporto Ispra “Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici” a cura del Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (Snpa) evidenzia il record negativo di consumo del suolo nel 2021 – oltre 2 metri quadrati al secondo, una media di 19 ettari al giorno, il valore più alto negli ultimi dieci anni – parla infatti a più riprese del degrado del terreno.
Ma cosa significa degrado del suolo? Lo abbiamo chiesto a Lorenzo Ciccarese, responsabile Ispra dell’Area per la conservazione delle specie e degli habitat e per la gestione sostenibile delle aree agricole e forestali. Innanzitutto lo scienziato chiarisce: «Il suolo è presupposto di biodiversità in genere. E la biodiversità esiste se esistono dei suoli sani, vitali, resilienti, che hanno la capacità di rigenerare le funzioni che svolgono». È possibile, aggiunge, stabilire la qualità del suolo: «Ci sono dei caratteri del suolo che si misurano fisicamente e chimicamente. I caratteri fisici sono legati alla struttura, alla composizione, mentre invece i caratteri chimici sono legati soprattutto ai problemi di contaminazione oppure alla presenza di metalli pesanti o alla salinità. Insomma, quando si parla di caratteri fisici e chimici si definiscono tutti i parametri della qualità del suolo e quindi misurandoli, si può valutare come cambia la qualità dei suoli».
Quindi massima attenzione al consumo di suolo, che è un fatto importante a livello mondiale, continua Ciccarese, e che riguarda adesso soprattutto i Paesi in via di sviluppo – e anche l’Italia come dimostra il Rapporto Ispra – ma bisogna pure considerare il problema complementare del degrado del suolo. «Questo incide sulla sicurezza alimentare dell’intera umanità e investe la biodiversità in genere. La degradazione dei suoli significa infatti anche la degradazione dei servizi, dei benefici che il suolo fornisce alle persone e alla vita selvatica». Un tema, questo, che che è l’oggetto dell’ultimo rapporto dell’Ipbes, la piattaforma intergovernativa scientifica e politica sulla biodiversità e gli ecosistemi delle Nazioni Unite.
Quali sono i fattori della perdita di qualità dei suoli in Italia?
«Intanto va detto che l’agricoltura è il principale settore che subisce il consumo di suolo. Gran parte del territorio che viene consumato è suolo agricolo, e spesso proprio le aree agricole di maggiore qualità vengono utilizzate per costruire infrastrutture, strade. Sono quei terreni di pianura o nelle zone costiere dove si produce agricoltura ad alto reddito, orticultura, vigneti ecc.». Ma l’agricoltura, continua Ciccarese, «è anche un fattore di degrado dei suoli, costituisce, per così dire, un problema a sé stessa». Certo, ci sono anche altri fattori, come il deposito nei suoli agricoli di sostanze inquinanti provenienti dall’industria e dai trasporti, reflui urbani, per non parlare poi degli scarichi illegali di rifiuti.
Ma facciamo il punto sull’agricoltura.
Le monocolture intensive, l’uso indiscriminato di fertilizzanti, la mancanza di avvicendamento dei tipi di colture sono tra i fattori del progressivo impoverimento dei suoli.
«Questi sistemi monoculturali intensivi – grano su grano o granturco su granturco per molti anni – prima non erano possibili perché bisognava far riposare il terreno, intervenire con la letamazione, procedere all’avvicendamento, alla rotazione delle colture. L’agricoltura intensiva della rivoluzione verde, che ha avuto in Norman Borlaug il suo precursore, premio Nobel per la pace giustamente per aver lottato contro la fame nel mondo, ha creato però negli anni una serie di problemi. Non si può pensare che attraverso la meccanizzazione, l’uso di macchine pesanti, l’impiego di varietà genetiche molto produttive, le irrigazioni, le fertilizzazioni, si utilizzi il suolo come substrato privo di vita».
Anche perché poi si ottiene l’effetto opposto, dice l’esperto dell’Ispra riferendosi a casi italiani. «Quando i suoli perdono queste qualità fisiche e chimiche perdono la loro fertilità naturale e progressivamente non sono più disponibili alle colture agrarie, hanno perso la struttura e composizione e non portano più avanti le rese di una volta e quindi l’effetto che si produce è che questi terreni vengono abbandonati. Anche noi in Italia abbiamo delle aree dove si è verificato questo fenomeno. Importanti distretti ortofloricoli del Paese negli anni Novanta sono entrati in crisi, anche a causa di pratiche intensive di coltivazione, che prevedevano, tra le altre cose, l’uso di bromuro di metile con la fumigazione che, per combattere patogeni, parassiti ed erbe infestanti, abbatteva ogni forma vivente del suolo, dai batteri ai nematodi, dai semi delle piante spontanee agli insetti. Poi si è scoperto che questo gas, abbatteva la fertilità dei suoli, oltre ad arrivare in atmosfera e agire sugli strati dell’ozono. Naturalmente il bromuro di metile è stato proibito ed è interessante notare che la Convenzione di Stoccolma sugli inquinanti organici persistenti ha creato un protocollo per uscire dall’uso di queste sostanze che è servito in seguito come modello per accordi multilaterali come il protocollo di Kyoto».
Esistono soluzioni per ripristinare un suolo impoverito? «Ci sono segnali positivi poiché la comunità scientifica ha dato precise indicazioni che per funzionare dipendono ovviamente dalle scelte della politica. Ma intanto c’è da registrare il successo dell’agricoltura biologica che ha raggiunto oltre 2 milioni di ettari che rispetto alla superficie totale agricola rappresenta il 15 per cento. Una superficie in continua crescita anche se l’anno scorso c’è stata una battuta d’arresto». Da qui può venire un’azione di “restoration” dei suoli degradati, nell’ottica della Land degradation neutrality tra gli obiettivi dell’agenda 2030 delle Nazioni Unite.
Lorenzo Ciccarese entra nei dettagli: «Ci sono due strategie della commissione europea, una per la biodiversità e l’altra cosiddetta Farm to fork, che hanno un target in comune: ripristinare i suoli agricoli prevedendo di arrivare al 30 percento di agricoltura biologica entro il 2030 e dall’altra di ridurre il consumo di fertilizzanti e pesticidi e di ridurre il rischio associato al consumo dell’uso di pesticidi per gli esseri umani». Da esperto per la conservazione degli habitat naturali e della biodiversità lo scienziato spiega ancora: «Tra le misure, una importantissima, è quella di mantenere all’interno delle aziende agricole degli elementi di naturalità: i muretti a secco, i filari, le siepi, perché consentono agli impollinatori di trovare il loro habitat e di regolare il deflusso delle acque e di ridurre l’erosione del suolo. Tra gli effetti indiretti c’è anche quello di ridurre la concentrazione del capitale agrario, perché questi elementi di naturalità resistono o aumentano nelle piccole aziende che quindi sono associate anche alla sostenibilità, all’aver cura del territorio, al mantenimento dell’ambiente».
Veniamo all’emergenza del momento che stiamo vivendo: quanto la siccità può impoverire il terreno? «La prima cosa da dire è che i terreni che perdono di qualità sono anche i più vulnerabili ai cambiamenti climatici e dall’altra parte i cambiamenti climatici agiscono anche sulla qualità dei suoli perché, per esempio, con l’aumento della temperatura aumentano i processi ossidativi della sostanza organica dei terreni che ormai mediamente, in Italia, è intorno all’1 per cento. Per sostanza organica si intende l’humus, i composti del carbonio, micro organismi ecc. La sostanza organica è importante perché riduce l’evaporazione dei suoli, ne mantiene l’umidità. Quando questa sostanza organica viene ossidata viene restituita in atmosfera sotto forma di CO2 e si aggrava il problema del climate change. Questo è uno dei problemi aggiuntivi, tra i cosiddetti “positive feedback” messi in evidenza dall’Ipcc, che includono anche il rilascio di metano, un potente gas serra, e altri gas serra in atmosfera dal permafrost, il terreno perennemente ghiacciato che riguarda 1,5 miliardi di ettari a scala globale. Complessivamente il permafrost stiva circa il doppio della quantità di carbonio immagazzinato in atmosfera. Per effetto dell’aumento della temperatura questi terreni si stanno scongelando producendo altro metano che viene immesso in atmosfera».