La riforma Cartabia stritola i magistrati tra i numeri, i desiderata del capo del proprio ufficio e il compiacimento del foro. Come questi interventi possano snellire la macchina della giustizia è un mistero

Con la legge n. 71 del 17 giugno 2022, il Parlamento ha approvato la riforma dell’ordinamento giudiziario e delle disposizioni in materia di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura. Stiamo parlando della cosiddetta “riforma Cartabia”. Ne è scopo dichiarato l’efficientamento della giustizia italiana, uno step necessario per poter accedere ai fondi del Pnrr. È significativo che, per rendere efficiente il sistema giustizia, il legislatore abbia scelto di riformare l’ordinamento giudiziario.

Fugano l’opinione che il malfunzionamento della giustizia italiana dipenda in gran parte dai magistrati i dati statistici restituiti dall’ottavo rapporto elaborato dalla Commissione europea per l’efficienza della giustizia (Cepej), istituita con lo scopo di valutare e promuovere l’efficienza del funzionamento e dell’organizzazione della giustizia nei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa. Essi indicano che i magistrati italiani sono tra i più produttivi d’Europa, con indici di smaltimento delle pendenze pari o superiori al 100%. Ciò significa che costoro smaltiscono quanto e più di quanto ogni anno è assegnato a ciascuno di loro. Questi dati sono agevolmente fruibili online.

Venendo al dettaglio delle novità normative, hanno destato le maggiori perplessità della magistratura – che attraverso l’Associazione nazionale magistrati (Anm) ha indetto uno sciopero nazionale il 16 maggio 2022 – quelle introdotte in tema di: formazione del fascicolo personale del magistrato, valutazioni di professionalità, separazione delle carriere. I riferimenti normativi vanno ricercati nell’articolo 3, comma 1, lett. a), c) ed l), e nell’articolo 12 della già citata legge 71/2022.

Il testo licenziato dal Senato contiene già una disciplina di compromesso. Si tratta della connessione dell’esercizio del diritto di voto degli avvocati nei consigli chiamati ad esprimersi sulle valutazioni di professionalità dei magistrati al contenuto di eventuali precedenti segnalazioni su fatti specifici. Come pure dell’ancoraggio delle valutazioni di professionalità, anziché agli “andamenti statisticamente significativi nelle successive fasi e nei gradi del procedimento e del giudizio”, al rilevamento dei caratteri di grave anomalia in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle fasi o nei gradi successivi.

Resta la chiara volontà di imprimere un’ulteriore spinta alla gerarchizzazione della magistratura, suddivisa fra magistrati di livello inferiore e superiore, con inevitabili effetti di burocratizzazione e standardizzazione della risposta di giustizia. Per il giudice, infatti, sarà meglio scegliere di appiattirsi sulle decisioni dei colleghi dei gradi successivi.

I magistrati non temono il fascicolo della performance, che ogni giudice aveva già. Questo oggi si arricchisce solo di giudizi idonei ad innescare le derive carrieristiche che la legge voleva evitare, spingendo i giudici a cercare di soddisfare le richieste del capo dell’ufficio per conseguire il miglior voto in pagella. Piccona la serenità del giudice se non condiziona la sua indipendenza l’attribuzione di un diritto di voto al difensore che al mattino siede in processo dinanzi a lui e di pomeriggio in consiglio giudiziario ad esprimersi sulla sua valutazione di professionalità.

A chi giova questo giudice spaventato, stritolato fra i numeri, i desiderata del capo del suo ufficio e il compiacimento del foro? Come questi interventi possano velocizzare il processo di un solo giorno è un mistero. Quanto al carrierismo, la riforma gli offre forse un percorso semplificato: il giudice che, avendo le migliori valutazioni, farà più strada sarà quello che si conformerà agli orientamenti dei colleghi dei gradi successivi, che compiacerà il capo dell’ufficio, che non scontenterà il foro. Come la separazione della carriere interferisca con l’efficienza del sistema penale è questione mai spiegata.

La narrazione dei giudici e dei pubblici ministeri delle medesime correnti di provenienza che concordano gli esiti dei processi non è che un’illazione senza concreto fondamento. Se la separazione delle carriere, accompagnata dall’attribuzione della determinazione dei criteri di priorità investigativa alle maggioranze politiche, è l’anticamera dell’attrazione del pm sotto il controllo dell’esecutivo, siamo al crepuscolo dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Se la giustizia non è un’azienda, le Procure della Repubblica non possono essere il luogo del politicamente corretto.

La Costituzione italiana ha voluto una magistratura autonoma dagli altri poteri dello Stato, composta da giudici inamovibili, che si distinguessero solo per funzioni. Ha voluto l’unità della giurisdizione requirente e giudicante e l’obbligatorietà dell’azione penale perché il pm non dovesse subordinare che alla legge le sue scelte investigative e si facesse così primo paladino dell’uguaglianza fra i cittadini davanti alla legge, scolpita fra i principi che sono a fondamento della Repubblica italiana.

Tali norme non hanno lo scopo di creare una casta ma sono lo statuto di una funzione di servizio nel superiore interesse dei cittadini. Sono questi i principi dello Stato di diritto che rischia di scalfire questa riforma, portatrice di un pericoloso messaggio culturale più che di significative modifiche. Non tutto si può sacrificare sull’altare dei finanziamenti pubblici. Non sempre basta che una riforma possa essere, infine, non incostituzionale.

 

Per approfondire, leggi gli interventi su Left di Giovanni Russo Spena e di Concetta Guarino

* L’autrice: Wilma Pagano è giudice presso la Prima sezione penale del Tribunale di Brescia e membro della Giunta esecutiva sezionale dell’Anm del distretto di Brescia