Ormai giornalmente veniamo avvertiti che il centro-destra potrebbe raccogliere fino al 48% dei voti validi, con il Fratelli d’Italia ben sopra il 20%, il partito più votato in Italia. Sarà anche vero che questo Paese è sempre stato «di destra», ma questo risultato segnerebbe senza dubbio un momento di svolta nella storia politica italiana. La domanda che sorge spontanea, però, è: come è possibile che siamo arrivati a questo punto? Un partito «post-fascista», i cui legami ideali con il fascismo non sono mai stati veramente recisi, si troverà dunque al governo, eletto dagli italiani, esattamente cento anni dopo quella marcia su Roma che segnò la triste involuzione autoritaria del Paese.
Se qui siamo arrivati, non è però un caso. E non è tanto – come superficialmente affermano in molti – perché FdI è stato all’opposizione del governo Draghi, facendo tesoro della rendita di posizione di cui gode sempre chi si schiera contro, nonostante la supposta «popolarità» dell’ex banchiere e i suoi «ottimi risultati». Il successo di FdI e della destra viene da lontano e molto hanno contribuito, a quel successo, il centro-sinistra e le sue politiche.
È da ormai più di un decennio che movimenti e posizioni «populiste» vanno affermandosi in Europa, coniugandosi con l’affermazione di movimenti apertamente filo-fascisti o nazisteggianti, quella «alt-right», la destra «radicale» che per molti versi è diversa dalla vecchia destra neo-fascista degli anni Settanta. È una destra che raccoglie attorno ai neo-conservatori frange apertamente filo-fasciste, appellandosi anche ai ceti popolari, facendo leva su sentimenti di rancore e rivalsa che albergano nel corpo sociale, soprattutto tra quelle fasce che più hanno vissuto sulla propria pelle gli effetti negativi della globalizzazione, le politiche di austerità, e che si trovano «escluse», marginalizzate, ceti medi e medio-bassi «proletarizzati» che sono rimasti spiazzati dalle dinamiche del capitalismo neo-liberista che si è affermato negli ultimi trent’anni. Si trattasse solo di quelle élite neo-conservatrici che non si riconoscono più nelle intemperanze della Lega o nel moderatismo post-democristiano di Forza Italia, non ci sarebbe forse di che preoccuparsi. Il fatto è che il consenso si è allargato alle fasce deboli, rimaste alla mercè delle dinamiche del mercato, senza «protezioni», dal sotto-proletariato dei «coatti» ai «perdenti della globalizzazione».
La dinamica politica italiana, in questo, mostra sviluppi preoccupanti, ma anche molto prevedibili. Che riflettono, da un lato, i mutamenti sociali in atto e, dall’altro, l’evolversi della cosiddetta «offerta» politica, data dalle forze politiche attive e dai messaggi e prospettive che offrono. Dopo il 1989 e, soprattutto, dopo il 1992, con lo scioglimento del Partito comunista, tangentopoli, l’adesione al Trattato di Maastricht e l’inizio della «globalizzazione», il panorama politico italiano muta radicalmente. A sinistra, la transizione è incerta, mentre a destra il blocco conservatore si ricompatta attorno a Forza Italia, il partito-azienda del Signor B. Il travaglio dei post-comunisti vede fasi alterne, perdendo progressivamente pezzi, per approdare al centro-sinistra dell’Ulivo nel 1996, che governa fino al 2001 e poi di nuovo dal 2006 al 2008.
Quando nasce il Partito democratico di Veltroni a «vocazione maggioritaria», alle elezioni del 2008 la sinistra e il centro-sinistra non riescono a coagulare più del 40% dei voti, mentre il centro-destra ottiene il 46.8% e l’Udc di Casini il 5.6% (la destra si ferma al 2.4%). Fino ad allora, il “blocco sociale di riferimento” del centro-sinistra è più o meno definito, come lo è quello del centro-destra. Il 2008, però, è anche il primo anno di una crisi economica che si protrarrà fino al 2013, con effetti catastrofici. Il Pd non coglie cosa sta avvenendo nel tessuto sociale. Il sostegno al governo Monti, dal 2011, con la sua agenda “rigorista” nel nome dell’austerity europea, provoca il primo definitivo smottamento, di cui trae vantaggio il messaggio egalitario e “populista” dei neonati 5 Stelle di Grillo. Ma il divario tra il Paese e il palazzo si allarga, soprattutto tra i ceti popolari, come testimonia la partecipazione elettorale: tra il 2008 e il 2013 il numero dei votanti scende da 37,9 a 35,3 milioni.
Nel 2013, i voti del Pd scendono da 12 a 8,6 milioni (il 25.4%), mentre la coalizione raggiunge il 29.6% (con Sel al 3,2%), il centro-destra si ferma al 29.2%, la coalizione di Mario Monti ottiene il 10.6%, mentre Rivoluzione civile si ferma al 2,3%. Il M5s, invece, prende il 25.6%, raccogliendo buona parte del voto “in uscita”, a sinistra come a destra, degli «scontenti», mobilitati dalle istanze «anti-sistema» che il movimento esprime. Per l’intera legislatura, però, il Pd mantiene la guida del governo, con Letta, Renzi e poi Gentiloni, non modificando sostanzialmente la sua agenda politica.
Così, le istanze populiste e demagogiche trovano facile terreno di coltura, alimentate dall’insoddisfazione crescente e dalla stagnazione del Paese. Nel 2018, i votanti scendono ancora, a 33,9 milioni, i voti del Pd calano a meno di 6,2 milioni (il 18,8%), e al centro-sinistra va il 22,9%, mentre Liberi e uguali ottiene il 3,4% e gli altri di sinistra appena l’1,6%. Il centro-destra ottiene il 37% (la Lega il 17,4%, Fi il 14% e FdI il 4,4%). Ed è il M5S a uscire vincitore, raccogliendo ben 10,7 milioni di voti (il 32,7%) tra i ceti medi e medio-bassi delle periferie urbane e nel sud. Ma anche la Lega, sotto la guida di Salvini.
Il populismo 5 Stelle è fondamentalmente rivolto al popolo come «demos», con le sue istanze egalitarie, anti-elitarie e le sue promesse assistenzialistiche. Quello della Lega è rivolto al popolo come «ethnos», rimarcando istanze securitarie e identitarie, anti-immigrazione, anti-europeiste, protezionistiche, «sovranistiche» (si veda Ardeni, Le radici del populismo, Laterza 2020). Sia la Lega che il M5s si rivolgono ai ceti medi e medio-bassi, in questo, cogliendo la disaffezione profonda di vaste fasce dell’elettorato verso sinistra e centro-sinistra, tra le quali si alimenta il disagio sociale e il rancore.
A nulla valgono quattro anni e mezzo di una legislatura in cui il M5s, partito di maggioranza relativa e sempre al governo, nei due esecutivi a guida Conte e Draghi, non riesce a portare a termine alcuna delle sue promesse – se si esclude l’inutile riduzione del numero dei parlamentari e il reddito di cittadinanza – mentre la Lega, al governo in due esecutivi, dopo l’imposizione dei «decreti sicurezza» pare rivolgere le sue attenzioni più al nucleo originario della sua base sociale che a quello dei ceti popolari non protetti. Così, quattro anni e mezzo sono passati senza che il Pd abbia non solo fatto un’analisi consequenziale di quanto andava corretto della sua linea e delle sue politiche ma stando al governo nel nome della “responsabilità”, prima per non “consegnare il Paese alle destre”, poi per affrontare l’emergenza della pandemia e sostenere il governo di “unità nazionale” sotto la guida di Mario Draghi. Preoccupandosi dei «diritti», senza peraltro portare a casa alcun risultato (dallo ius soli alla legge Zan). Una strada intrapresa da tempo, peraltro, nell’illusione che lasciando fare ai mercati, la crescita avrebbe beneficiato tutti, buttando a mare l’esperienza del capitalismo regolato. Continuando a guardare ai ceti medi. Dimenticandosi, ancora una volta, di quelle classi popolari che non sono più, evidentemente, nel suo radar. E che ora, dopo aver visto sciogliersi come neve al sole le promesse del M5s, come non poteva essere altrimenti, guarderanno a destra, nella speranza di trovare un nuovo rifugio o resteranno semplicemente a casa, senza ormai alcuna fiducia che questa democrazia sia in grado di rispondere ai loro bisogni.
Così muoiono le democrazie, ignorando quella domanda di eguaglianza nella libertà. Lasciando i ceti deboli allo sbaraglio, in mano alla destra radicale, che ora raccoglie tra i delusi della Lega quanto dagli esclusi di ogni tipo. Contento di difendere la cittadella «progressista», il Pd si accontenterà di raccogliere gli stessi consensi di prima, tra i ceti medi protetti. Sperando che l’astensione massiccia dai delusi dei 5 Stelle faccia alzare le percentuali sui voti validi. E aprendo la via all’involuzione illiberale, mai come oggi a portata di mano.
L’autore: Pier Giorgio Ardeni è professore ordinario di Economia politica e dello sviluppo all’Università di Bologna. È autore di numerosi saggi tra cui Le radici del populismo (Laterza 2020) ed è uno degli autori del libro collettaneo di Left di maggio 2022 “Tax the rich” (a cura di Piero Bevilacqua)