Uno spiraglio per approdare non solo a un assetto di equità sociale, ma anche per modificare il rapporto tra modo di produzione ed equilibri ambientali, deve passare attraverso un grande rinnovamento della scena pubblica

L’epoca è segnata da contraddizioni clamorose, le più laceranti forse che abbiano mai segnato la condizione umana. Le società economicamente avanzate sono in grado di spedire navicelle nelle zone più remote della nostra galassia mentre in tanti villaggi dell’Africa milioni di bambini non hanno acqua potabile da bere. Ogni anno finisce nelle discariche 1 miliardo e 300 milioni di tonnellate di cibo, e nelle campagne del mondo i braccianti che lo raccolgono sono pagati con salari da fame, lavorando almeno dieci ore al giorno in condizioni di semischiavitù. In Italia il caporalato, vecchia piaga delle campagne meridionali dei primi decenni del Novecento, non solo è risorto, ma si è diffuso in tutto il Paese. Eppure questo eccesso di cibo è frutto di una agricoltura che incide per il 30% sul riscaldamento climatico, consuma il 70% dell’acqua disponibile, contribuisce a desertificare ogni anno tra 10 e 12 milioni di ettari di suolo fertile del pianeta.

In Occidente e in altre aree del mondo ricco si sono raggiunti alti standard di produttività del lavoro, un elevato reddito medio per abitante, eppure la gran parte degli operai e impiegati lavora ancora come 40 anni fa e tutti vivono in una perenne corsa come se dovessero ancora sfuggire a una condizione di miseria. Questa estate incendi vasti e indomabili hanno devastato i boschi di gran parte dell’Europa, piogge tropicali hanno infuriato anche sui lidi del Mediterraneo, la scarsa portata dei grandi fiumi come il Reno, il Danubio, il Po hanno messo in forse la navigazione interna, le acque del Rodano e della Garonna sono diventate troppo calde per raffreddare i reattori nucleari in Francia. Eppure in questo stesso 2022 gli Stati europei, che già spendono ingenti fortune in armamenti, hanno deciso di accrescerle ancora per ubbidire alla Nato. Armi per continuare a sterminare esseri umani dopo che il Covid 19 ne ha uccisi oltre 6 milioni e mezzo.

Forse non si era mai verificata in tutta la storia umana una divaricazione così drammatica tra le previsioni, i timori, gli ammonimenti degli scienziati per il futuro prossimo della Terra e il comportamento degli Stati. Nessuno sa quali catene di conseguenze catastrofiche può riserbarci lo scioglimento del permafrost ai Poli, nessuno è in grado di prevedere che cosa accadrà ai mari e agli oceani, il 71% della superficie del globo, con l’ulteriore innalzamento della temperatura. Cassandre inascoltate lanciano i loro allarmi mentre i governi continuano nella routine di sempre, come se il Pianeta fosse nelle condizioni di 100 anni fa.

E dunque chiediamoci: quale può essere la ragione ultima, fondamentale, alla base dell’assurdo che sembra essere l’unica forma di razionalità a orientare i gruppi dominanti del nostro tempo? Qual è l’ordine minimo rintracciabile nel caos? Qual è la causa prima che riassume una condotta di quasi tutti gli Stati, contraria a ogni ragionevolezza, irresponsabilmente votata a lavorare per il collasso definitivo della nostra casa comune?

Io credo che la risposta, nella sua essenzialità, sia ben evidente, purché si possegga uno sguardo radicale e una prospettiva storica. Negli ultimi trent’anni i grandi gruppi del capitalismo dei Paesi avanzati hanno vinto una partita storica contro la classe operaia, le organizzazioni sindacali e i partiti che per decenni l’avevano rappresentata e difesa. Nessuna forza sembra oggi in grado di contrastarli. Il capitalismo ha talmente vinto da essere diventato il modo di produzione non solo dei Paesi ex comunisti, come la Russia, ma anche di quelli che si ritengono ancora tali, come la Cina. La diffusione del pensiero unico quale religione totalitaria del nostro tempo costituisce il sigillo di tale universale dominio. Ma l’anima infernale del capitalismo spinge a un processo di accumulazione continua, senza tregua, che divora quotidianamente immani quantità di risorse.

Diventato l’unico modo di produrre e consumare in tutto il pianeta, lo sta divorando. Mentre i gruppi che lo comandano e ne traggono ricchezza e potenza, avendo a disposizione una forza lavoro assoggettata, legislazioni statali di favore, opinione pubblica manipolata dai media, non intendono arretrare di un pollice. Allo stesso modo i gruppi dominanti dei Paesi che sono arrivati dopo quelli europei e americani sono determinati a partecipare alla corsa con non minore voracità. Dunque, i ceti dirigenti di quasi tutti i Paesi del mondo sono in gara, gettati nell’agone competitivo, e ciascuno riconosce un’unica divinità da adorare: la crescita economica. Essi sono simili a robot caricati con un programma del secolo passato. E quale sia il destino delle società umane mantenendo inalterato l’attuale ordine internazionale è facile prevedere, e perfino vedere, se si considera lo scenario di guerra che oggi investe anche l’Europa.

E allora, quale può essere la via d’uscita, lo spiraglio che porta alla salvezza, il bandolo da afferrare per annodare una nuova tela? Allo stato attuale la via appare quanto mai impervia, ma, in linea teorica, non impossibile. Si tratta di un compito gigantesco, certamente, se non si assume il quale, tuttavia, l’umanità avrà un avvenire di catastrofi a catena e di incerta sopravvivenza. La leva su cui appoggiare la nostra forza è quella dello Stato di diritto, una grande conquista della modernità. È il potere pubblico, grazie alla potenza della legge, che può limitare il dominio sfrenato del capitale, regolare il mercato, puntare a un ordine cooperativo internazionale, imporre la pace e la trattativa quale metodo di risoluzione dei conflitti. Ma lo Stato in gran parte dei Paesi sono i partiti. E oggi i partiti son quasi tutti diretti da personale programmato anch’esso con culture del Novecento. Uomini e donne che nulla sanno di ciò che sta accadendo al pianeta, preoccupati di riprodurre se stessi come ceto, di conservare il proprio status imbonendo i cittadini con una perenne campagna elettorale.

Osservate lo spettacolo paradigmatico dell’Italia alla vigilia del voto. Tutti corrono al “centro”, cioé si mettono nella posizione più vantaggiosa per afferrare voti da tutti le parti, senza disturbare i poteri dominanti, e dunque conservando lo status quo. Nel frattempo il governo dimesso continua a mandare armi in Ucraina gettando miliardi nella fucina della guerra. Ma oggi rimanere fermi non significa conservare un equilibrio stabile, significa precipitare. Il mondo, e l’Italia in maniera più specifica, sono su un piano inclinato, se non cercano di risalire la china, rompendo gli attuali assetti catastrofici, franano in basso.

Per tale ragione oggi le formazioni politiche radicali che faticosamente stanno risorgendo sullo scenario politico – come la Nupes di Mélenchon in Francia, e da ultimo l’Unione popolare in Italia – hanno un compito nuovo ed enorme da affrontare, incarnando una delle poche vie d’uscita che l’umanità ha di fronte a sé per evitare l’abisso. Non devono solo mobilitare le masse per imporre un nuovo assetto sociale, devono indicare a tutti i Paesi la via di un nuovo corso politico, che non intenda limitarsi ad attutire la violenza del capitale, ma miri a limitarne il potere e trasformarlo puntando a un assetto cooperativo e solidale delle relazioni internazionali. Relazioni sempre più fra popoli e sempre meno fra Stati.

Sicché appare chiaro che uno spiraglio per approdare non solo a un assetto di equità sociale, ma anche per modificare il rapporto tra modo di produzione ed equilibri ambientali, passa attraverso un grande rinnovamento della scena pubblica. Bisogna sostituire il ceto politico vecchio e parassitario, che oggi sta al centro, diventato ormai, con ogni evidenza, anche pericoloso. Occorre che al più presto arrivi al potere la generazione più minacciata della storia.