L’attuale impennata dei prezzi dell’energia, al di là delle temporanee scosse di assestamento, non ha precedenti storici. La crisi del 1973 vide un aumento del prezzo del barile di petrolio all’incirca del 30/40%, quella del 1979 un raddoppio dei prezzi. La crisi attuale ha visto il prezzo del megawattora passare da 30 euro a 200, con picchi anche decisamente più alti. Perché questo è avvenuto? La risposta è semplice perché la dimensione della finanziarizzazione dei prezzi dell’energia è oggi infinitamente maggiore rispetto agli anni settanta. Peraltro, la diminuzione dell’offerta reale di petrolio nelle due crisi petrolifere è stata decisamente maggiore rispetto all’attuale contrazione.
Dunque, la trasformazione dell’energia in una scommessa finanziaria è una novità assoluta, in termini storici, che ha generato un aumento dei prezzi altrettanto sconosciuto. È evidente che la fisionomia del sistema produttivo è ancora legata ad un livello di prezzi dell’energia che non può subire oscillazioni vertiginose come quelle attuali perché rischia di dissolversi assai più rapidamente di quanto non sia avvenuto negli anni Settanta quando la crescita dei prezzi non era incendiata dalla speculazione. Nel caso italiano, poi, l’inflazione sta producendo profondi effetti distorsivi, di carattere strutturale anche sul piano sociale. È sempre più evidente infatti che il rialzo dei prezzi accentua le disuguaglianze. L’inflazione è, attualmente, vicina al 9%, ma risulta ben oltre il 10 per le fasce di reddito più basse e inferiore al 6 per quelle più alte; una differenza che dipende in primis dalla struttura dei consumi. Dunque i poveri saranno sempre più poveri.
Ma c’è un altro dato rilevante. I prezzi aumentano in misura maggiore nei grandi centri; questo fenomeno impedisce sempre più le possibilità di spostamento di lavoratori e studenti. La cosiddetta mobilità interna che ha caratterizzato la storia italiana ed è stata uno strumento di riduzione delle disuguaglianze sta venendo meno per effetto dei differenti livelli di inflazione. Per famiglie con redditi bassi è impossibile mandare i figli e le figlie a studiare nei grandi centri, così come per lavoratori con salari bassi diventa impossibile mantenere un’occupazione nei grandi centri. In altre parole, l’inflazione sta erodendo rapidamente il tessuto sociale.
Non è possibile, allora, affrontare un simile fenomeno ricorrendo soltanto a misure di finanza ordinaria. Sostenere che non serva uno scostamento di bilancio per far fronte all’attuale situazione può essere una speranza, ma in termini concreti è quasi impossibile, come dimostrano i numeri. Negli ultimi sei mesi il governo Draghi ha impegnato oltre 60 miliardi di euro per far fronte all’impennata dei prezzi dell’energia, coprendone una parte rilevante con nuovo debito. Appare molto probabile che almeno nei prossimi sei mesi l’inflazione difficilmente calerà in modo sensibile (i tempi per un tetto europeo sono difficili e lunghi, al di là dell’efficacia della misura, la speculazione sembra destinata a continuare e l’Europa non pare intenzionata a cambiare la Borsa di riferimento, l’introduzione di un tetto nazionale al prezzo del gas sarebbe costosissima); dunque serviranno altri interventi pubblici, probabilmente non dissimili in termini quantitativi da quelli già erogati.
Ma se non si ricorre allo scostamento, con nuovo debito, come si coprono altri 30-40 miliardi di euro di spesa? Con gli extraprofitti? Sarebbe auspicabile, ma sappiamo che ad oggi di 10 miliardi che dovevano essere incassati, siamo fermi a 1,5 miliardi. E, in ogni caso, gli extraprofitti potrebbero partorire, forse, altri 10 miliardi a cui aggiungere, nella migliore delle ipotesi ulteriori 6-7 miliardi di maggior gettito Iva. E poi? con cosa finanziamo il resto del fabbisogno senza applicare alcuna riforma fiscale, perché in quasi nessuno dei programmi elettorali si parla di nuove, significative entrate?
Alcune forze della destra immaginano persino di ridurre le tasse al minimo e di cancellare i crediti fiscali dello Stato, restringendo ulteriormente le risorse disponibili ma, in ogni caso, anche ammettendo le politiche più “virtuose” è chiaro che, in queste condizioni inflazionistiche, il bisogno di maggiori spese e di maggiori interventi imposti dal caro prezzi richiede risorse che non possono non derivare da un maggior debito pubblico. In tal senso, quindi, piuttosto che immaginare entrate inesistenti, in nome di facili slogan, occorrerebbero misure per attrarre verso il debito pubblico il risparmio italiano e una politica in sede europea per frenare, altrettanto rapidamente, il rialzo dei tassi della Bce, che rende complicatissimo il collocamento del debito italiano.
A questo riguardo è opportuna un’ultima considerazione. Le principali beneficiarie del rialzo dei tassi della Bce sono le banche, come sta dimostrando l’andamento dei loro titoli. In estrema sintesi, la Bce rende più caro il costo del denaro e le banche migliorano i loro margini. Si tratta di un’operazione che ha un valore quasi interamente finanziario visto che è molto difficile che questa strategia del rigore possa frenare l’inflazione, almeno in Europa. Del rialzo non beneficia certo l’economia nel suo insieme che, oggi, avrebbe bisogno di tutto meno che di una nuova stagione di rigore. Avere affidato per intero le politiche monetarie a banche centrali che rispondono in primis a soggetti finanziari per effetto della struttura stessa delle banche centrali tende a favorire i grandi fondi hedge, proprietari di fette rilevanti del sistema bancario, piuttosto che l’economia. Non una grande scelta, ma la politica pare aver rinunciato a questo strumento fondamentale.
* L’autore: Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea, di Storia del movimento operaio e sindacale e di Storia sociale presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. È autore di numerose pubblicazioni e articoli sulle tematiche della storia economica e dell’economia
In foto: un’iniziativa contro il caro bollette di Confcommercio e Fipe, i supermercati abbassano le luci per evitare consumi troppo elevati. Nella foto, un punto vendita della grande distribuzione a Roma, 31 agosto 2022