In scena il 24 novembre ad Artegna e poi a Ferrara, Torino e Brescia, questo spettacolo cult parla di esilio, di vulnerabilità, di dignità umana, rinnovando la grande tradizione yiddish

Per festeggiare il trentennale di Oylem Goylem Moni Ovadia riporta in scena questo suo applaudito spettacolo che parla di esilio, di realtà umana, di vulnerabilità mescolando cabaret, musica, canzoni, storielle. Al centro la cultura yiddish e la diaspora ebraica. Per l’anteprima l’attore e regista ha scelto il Bolli circus della Fondazione Devlata di Sarzana, che si occupa di attività umanitarie e aiuta i ragazzi down attraverso la cultura e il teatro come forma di socialità. «Vengo spesso qui – racconta Moni Ovadia a Left – perché si è creata una grandissima amicizia con Marina, presidente della Fondazione Devlata, e con suo figlio Bolli a cui è dedicato un bellissimo chapiteau. A lui dedico il mio spettacolo.

Moni Ovadia come è stato ripartire proprio da qui?
È stato magnifico fare le prove e il debutto in questo spazio, poiché c’è il pubblico ideale, con persone di ogni fascia di età. Sembrava di essere ritornati all’origine di questa teatralità proveniente dal mondo yiddish grazie a questo tendone da circo. Uno chapiteau fu proprio il luogo dove, in Romania, Abraham Goldfaden, padre del teatro Yiddish, concepì il suo teatro dell’esilio, mentre c’era la guerra russo-turca (1877-1878) e molti ebrei erano affluiti nel Paese sia come soldati, sia come commerciati piccoli e grandi. Proprio in quella temperie Abraham Goldfaden si mise seduto in un tendone di circo. Chiedeva alle persone che incontrava se conoscessero storie o canzoni. Così cominciò a raccogliere molti materiali contribuendo alla nascita del teatro Yiddish che poi ebbe alcuni decenni di grande fortuna e sviluppo prima della catastrofe della Shoah.

Ma c’è chi poi chi ha voluto riprendere quella straordinaria tradizione.
Sì, tanto che oggi ci sono ancora teatranti, in ogni parte del mondo, che vogliono continuare questa tradizione a cui, tra l’altro, è stata anche dedicata una fiction completamente in lingua Yiddish. Si tratta di un mondo che manda bagliori di vita nonostante la lingua sia ormai crepuscolare.

Oylem Goylem è uno spettacolo nato da tante esperienze che le sono state di ispirazione. Vogliamo ripercorrerne alcune?
Avevo un gruppo musicale chiamato Gruppo folk internazionale, che ha riproposto musica tradizionale ed internazionale. In seguito cambiò forma perché il nostro genere musicale si fece contaminare dagli altri finendo così col fare anche concerti teatrali. Viaggiando in giro per l’Europa con i nostri spettacoli mi è capitato di incontrare esperienze singolari che mi hanno influenzato molto. Una di queste è stata quella di un gruppo/band di professori universitari di Francoforte, si trattava di musicisti, specializzati nell’ottone, ma anche di amatori coordinati magistralmente dal grande musicista Heiner Goebbels, che in seguito è diventato uno dei più grandi compositori europei. Il gruppo formò un’orchestra che si chiamava “Sogenanntes linksradikales blasorchester”, in italiano si potrebbe chiamare l’orchestra di fiati dei cosiddetti radicali di sinistra. Quest’orchestra faceva parodie musicali e clownery, che facevano molto ridere ma non mancavano mai alcune provocazioni. Successivamente ho avuto modo di incontrare il Willem Breuker Kollektief, un gruppo musicale olandese di jazzisti. Anche loro facevano clownery, gag surreali e numeri teatrali buffi. Anche grazie all’influenza di queste esperienze nacque l’idea di poter dar vita a una figura teatrale nuova.

Con la figura del musicista che diventa anche attore?
Esatto, la mia idea era creare una figura della drammaturgia teatrale. A differenza degli esempi che avevo incontrato, ho coltivato quest’idea del musicista attore non solo per usarla nella dimensione umoristica e comica ma anche in quella lirica e drammatica. La figura del musicista attore non deve essere scambiata per quella dell’attore che suona uno strumento. Io ho pensato a un musicista che diventa attore tramite la relazione intima col proprio strumento, e grazie anche alle posture del suo corpo, i suoi gesti e le sue espressioni facciali.

Con questa nuova creazione nacquero spettacoli di cui va giustamente molto fiero. Vogliamo ricordarne qualcuno insieme?
Sicuramente lo spettacolo che feci sulle mamme col sottotitolo Il crepuscolo delle madri, che mi era stato suggerito dall’arrivo della pecora Dolly nata dalla clonazione, così dentro di me mi chiesi se avrebbero davvero sostituito il parto con la clonazione, ma naturalmente si trattava di un’iperbole. Ci costruii uno spettacolo, che considero stilisticamente il mio più importante. Poi ho fatto Dibujo, uno spettacolo sulla Shoah dove i musicisti attori rappresentano l’orchestrina del lager, e due attori incarnavano uomini e donne deportati nel lager. Io interpretavo l’unico sopravvissuto, che raccoglieva gli impulsi di questa memoria. Questa figura appartiene alla dimensione mistico/leggendaria del mondo ebraico del centro-est-europeo. Questo personaggio è un morto di morte violenta e prematura, che torna per possedere un vivo perché non aveva potuto avere una morte degna di un essere umano, quindi con il conforto dei suoi cari. Il destino dei morti della Shoah non è stato però questo, perché come sappiamo hanno avuto morti orribili.

E arriviamo così allo spettacolo Oylem Goylem, che ha avuto molti riconoscimenti e libri dedicati. Cosa prova nel riportarlo in scena?
Mi rende molto felice riprenderlo a trent’anni di distanza grazie a una coproduzione del Centro Teatrale Bresciano e della Corvino Produzioni (nonostante non abbia mai smesso di portarlo in scena con più di mille spettacoli in tutto il mondo). Chiaramente alcune cose sono cambiate, gli anni sono passati, abbiamo aggiunto nuove sonorità, i miei racconti si muovono in maniera diversa, e per la prima volta in un gruppo sempre composto da soli uomini finalmente c’è una donna, la violoncellista Giovanna Famulari che è una musicista stellare. Nonostante gli anni la bussola rimane sempre quella del manifesto di Oylem Goylem, quindi di glorificare l’esilio come condizione di splendore dell’essere umano fragile che rivela la sua grandezza.

In questo spettacolo celebra la cultura yiddish. Il fondatore del teatro yiddish israeliano, Shmuel Atzmon, l’ha definita il più importante rappresentante al mondo nel campo della cultura yiddish. Qual è stato il suo approccio?
Shmuel Atzmon mi ha fatto riconoscimenti perché ho liberato l’Yiddish del dopo guerra e del dopo catastrofe dagli elementi troppo nostalgici e celebrativi. Io cerco di fare un teatro per l’oggi e per il domani e lo dimostra il fatto che nei miei spettacoli il pubblico è molto vario. Purtroppo spesso il teatro yiddish è stato la rappresentazione di una oleografia nostalgica. Io ho cercato di valutare la cultura yiddish come energia, materia, spiritualità e profondità, al fine di usare questo straordinario materiale espressivo umano ed etico per un teatro dell’oggi e del domani.

Rimanendo sempre in tema yiddish come definirebbe la sua forma di umorismo?
L’umorismo yiddish inaugura una forma di pensiero folgorante, il pensiero umoristico paradossale, ma non è fatto per ridere, la risata è un effetto collaterale sano e bellissimo.

Quanto è importante il teatro per la didattica della Shoah, per abbattere i pregiudizi e gli stereotipi non solo contro gli ebrei ma anche contro ogni forma di minoranza o verso chiunque possa essere considerato diverso dagli standard di un determinato Paese?
Il contributo del teatro è fondamentale perché non c’è nulla che può sostituirlo. Si istaura una relazione viva tra gli spettatori e l’evento scenico, e inoltre gli spettacoli possono cambiare a seconda della condizione sia degli interpreti che del pubblico. Il teatro ha poi uno statuto che lo rende fondamentale, e lo spiega bene Gigi Proietti in due versi di un suo sonetto in romanesco intitolato Viva er teatro, dove nei primi due versi recita “Viva er teatro, dove è tutto finto, ma gnente c’è de farzo”. Questo perché il teatro ha a disposizione “la pietas” della finzione, che gli permette di dire le cose più spietate e più paradossali perché viene protetto da essa. Per esempio il teatro può raccontare l’orrore senza che chi vede l’orrore rimanga pietrificato dal volto della Medusa, perché c’è la pietas della finzione. Da questo punto di vista il teatro è l’unico vero luogo di verità disponibile agli esseri umani.


Il 24 novembre
alle ore 20.45 Moni Ovadia presenta lo spettacolo al Nuovo teatro Lavaroni di Artegna per l’apertura della stagione 2022/2023 degli Amici del teatro. Dal 25 al 27 al Teatro comunale di Ferrara  Dal 6 all’11 dicembre sarà al Teatro fonderie Limone di Moncalieri (Torino)  Il 29, il 30 e il 31 dicembre sarà in scena al Teatro sociale di Brescia, il 31 con un brindisi con gli spettatori

Foto di Enrico Zappettini della Fondazione Devlata. Il ragazzo che Moni Ovadia abbraccia è Bolli a cui hanno dedicato il circo.

Andrea Vitello è specializzato in didattica della Shoah e graduato a Yad Vashem. Ha scritto il libro, con la prefazione di Moni Ovadia, intitolato Il nazista che salvò gli ebrei. Storie di coraggio e solidarietà in Danimarca, (Le Lettere 2022). Scrive su Pressenza e su Left