Il contrabbassista, alla sua prima avventura da solista, parla del nuovo album che presenta dal vivo a Roma il 30 novembre e a Milano l'1 dicembre. Una ricerca nel jazz e nella tradizione della musica italiana. «Le mie radici - dice - mettono al centro la melodia»

Nell’universo di Ferruccio Spinetti si naviga a vista, ma con un preciso sestante tra le mani. E non vi parlo dell’ormai celeberrima avventura musicale degli Avion Travel, ma piuttosto di quella scommessa che è Musica Nuda, il duo musicale che il contrabbassista ha fondato nel 2003 insieme alla vocalist e performer Petra Magoni. Musica Nuda ha realizzato, da un paio di mesi, Girotondo De André, uno strano disco concerto di cui ci parla Ferruccio Spinetti. «Nell’agosto del 2021 – racconta – andammo a L’Agnata, a casa di Fabrizio De Andrè e Dori Ghezzi su invito di Paolo Fresu. Lì suonammo dei brani di Faber mettendo in piedi un repertorio ad hoc, che poi registrammo al museo Piaggio di Pontedera». Nella scelta, dice, si fecero guidare dall’istinto: il risultato fu una raccolta di brani molto eterogenea, dai primi del 1968 fino a quelli degli anni Novanta, come “La nova gelosia” e “Disamistade”. Del primo, «una perla del ‘700», Spinetti dice che De André chiese direttamente al maestro Roberto Murolo di insegnarglielo, mentre del secondo, tratto dal «suo ultimo atto», Anime salve del 1996, racconta: «Avevo 25 anni quando ascoltai per la prima volta “Disamistade”: la cura per l’ensemble musicale che accompagnava il cantautore e la collaborazione con Ivano Fossati, non erano una cosa scontata».

Dall’omaggio a De André con Petra Magoni all’avventura da solista. È uscito a ottobre di quest’anno per l’etichetta Jando Music l’ultimo album di Spinetti, Arie (che presenta il 30 novembre a Roma, alla Casa del jazz,  l’1 dicembre a Milano, Blue Note, il 2 dicembre ad Ascoli Piceno, Cotton Club). Un disco «a completa tradizione italiana», come lui stesso lo definisce nelle note al suo sito. Porta sì, per la prima volta, la sua firma da solista, ma anche quella del singolare ensemble che attorno a lui si è formato, captando le suggestioni raccolte tra i tanti laboratori tenuti a Siena Jazz, da un lato, e suonando in giro per il mondo, dall’altro. Con lui, infatti, ci sono Jeff Ballard, da poco trasferitosi in Italia, nome supremo della batteria jazz che ha collaborato con, tra gli altri, Chick Corea e Brad Mehldau, Giovanni Ceccarelli al pianoforte, già con Spinetti in altri progetti come quello di InventaRio e del disco More Morricone, la special guest Rita Marcotulli, che dà il cambio a Ceccarelli in due brani; e, infine, la voce della appena venticinquenne Elena Romano, allieva di Spinetti nel gruppo di musica d’insieme di Siena Jazz. «Ho osservato Elena – dice – per otto mesi e alla fine ho deciso di coinvolgerla, preferendola ad altre vocalist più affermate e famose. Il rischio mi piace, una sfida nella sfida». Spinetti, che dirige il Premio Bianca d’Aponte per le cantautrici emergenti, dichiara infatti di voler dare una possibilità ai giovani, nell’ottica di schiudere il mondo della musica alle novità, oggi che «i piccoli club scoperti e attraversati ai tempi di Musica Nuda non esistono più», e di scovare talenti: «Bisogna andare a scavare sotto le cantine ancora oggi, gli under 30 hanno incredibili abilità tecniche. Quest’anno (al Premio Bianca d’Aponte, ndr) avevamo 11 finaliste: ragazze di 25, 30 anni che hanno assorbito la lezione dei grandi ma che cercano di costruire le loro canzoni».

La città natale del musicista, Caserta, dista poco dalla Napoli di Pino Daniele di Nero a metà e di Bella ‘mbriana, che gli fa il verso. Spinetti sembra volerci dire che il nocciolo della questione è proprio quello di lavorare in modo da far emergere le proprie radici. «Io prendo sempre dall’humus in cui vivo», afferma, e infatti le radici campane emergono, prepotenti, anche nel suo ultimo lavoro. Come? Nella ricerca ossessiva per la melodia, ad esempio. «Non posso fare musica se non esiste una linea melodica precisa e distinta e questo, probabilmente, va a cozzare con l’improvvisazione radicale del jazz contemporaneo e con il lavoro di tanti amici e colleghi che lo praticano», spiega. «Ma le mie radici mettono al centro la melodia in modo indefesso. Quando faccio un solo cerco sempre di essere melodico».

Fare jazz, per lui, significa mantenere un approccio preciso, tutto il contrario dell’improvvisazione. Con questo suo modo gentile e diretto di parlare spiega: «Ho voluto trasformare dei pezzi che nascono strumentali in canzoni e vestirli di arrangiamenti velatamente jazz». Il sogno di Ferruccio è insomma presto detto: riferendosi alla musica classica, provare a prendere le antiche arie da cui nasce la forma canzone e far diventare così i brani strumentali del jazz esattamente in queste piccole arie, praticamente delle vere e proprie canzoni. Uno strano connubio? Non proprio, a sentire il risultato brillante, soffice, sinuoso, magmatico. Fermo restando che per lui il vero ed originario legame con le arie d’opera resta comunque Puccini: pensiamo alla versione del “Nessun dorma” che ne fece con Musica Nuda.

Arie parte con il brano “The river song” a firma di Cesare Picco ed Elena Romano e prosegue con “The look in your eye”, dove Enrico Pieranunzi prende il posto di Picco. «Pieranunzi per la mia generazione – dice Spinetti – è stato una fonte di ispirazione. Quando, da allievo, suonavo con lui a Siena jazz, mi tremavano le gambe. Lo stesso succedeva con Enrico Rava e Bruno Tommaso: persone che mi hanno cambiato la vita. L’”Ossessivostinato” di Tommaso cantato da Elena con quattro sovraincisioni sovrapposte con la tecnica del contrappunto è un omaggio a questa figura della musica».
È un tempo musicale, ma anche un modo di essere, quello di Ferruccio Spinetti. Ostinato e gentile: «Quando da artista senti che quello che stai facendo è giusto, devi portarlo a termine con tutte le tue energie. Poi puoi sbagliare. Ci sta, perché magari non lo riesci a suonare. Può succedere di fare degli errori, di incontrare dei buchi neri».

Con l’aria birichina di chi ti sta rivelando un segreto privatissimo mi confessa di aver scelto uno standard jazz strumentale di Enrico Rava dal titolo “Bella” e di averlo convertito in “Aria”, settimo brano dell’album, coinvolgendo per la scrittura del testo l’amico Peppe Servillo, che lo aveva inciso in un disco di Roberto Gatto di venti anni fa. «Ho preso in prestito il brano per farne una nuova versione»: l’azione, insomma, è quella di rimestare nel jazz italiano degli ultimi decenni, prenderne arie e standard melodici e rivisitarli nell’abito, nella forma, nella luce. «Vale per “Lullaby for Ugo” (dodicesimo brano dell’album, ndr) che porta la firma di Paolino Dalla Porta, dove la traccia dura pochi minuti e provo a fare l’esposizione del tema per solo contrabbasso e batteria. Ecco, il jazz è, per me, in questo incontro tra improvvisazione ed esposizione del tema al contrabbasso». Brevità, quindi, e nessuna voluta e ridondante improvvisazione.
Alla fine del disco arriva, inaspettata, anche la “Versilia” di Luca Flores, immenso pianista jazz raccontato al grande pubblico dal regista Riccardo Milani nel film Piano, solo del 2007: «Qui ho fatto un’operazione alla De André, mi piaceva l’andamento ritmico e la costruzione armonica di questo brano. Un genio del pianoforte e un grande autore, Flores: ne ho parlato spesso con Stefano Bollani».

In Ferruccio Spinetti si contaminano magicamente presente e passato. Spesso gioca con le immagini di oggi, ma lo fa vestendosi di antiche corazze e gorgiere, come rimestando nel passato musicale e nelle radici: «Ho pochi punti di riferimento, ma credo che quei pochi siano molto a fuoco».
Inevitabile quindi ricordare Fausto Mesolella, chitarrista e suo compagno negli Avion Travel scomparso nel 2017. «Fausto è stato per me un maestro, come lo è stato Bruno Tommaso al Conservatorio di Napoli. Un maestro che mi ha insegnato il senso ritmico e a stare sul palco. Gli anni del Nada Trio, dal ’95 al ’97, sono stati la mia palestra per imparare ad andare a tempo. Il pezzo che gli ho dedicato glielo avevo mandato nel 2016 con il mio IPhone; a lui piacque molto e mi spinse a scavarlo ancora. Dopo la sua scomparsa, negli Avion non abbiamo più voluto un chitarrista, ma abbiamo inglobato Dulio Caiota, un tastierista capace di coprire anche l’area elettronica necessaria».

Poco prima di salutarci Ferruccio mi rivela che quando non fa il musicista gioca a basket con i suoi coetanei, e che durante la pandemia ha musicato un corto di pochi minuti con la voce narrante di Mario Martone che raccontava della vita della scrittrice Fabrizia Ramondino, frequentata dal regista ai tempi del suo Morte di un matematico napoletano. Ci addentriamo infine nel tredicesimo brano del disco, “Vagabondi delle stelle”, recuperato dal film Basilicata coast to coast di Rocco Papaleo. Chiedo a Ferruccio se anche lui si sente così, un po’ vagabondo delle stelle: «Sì, perché sto sempre per aria, il musicista è un vagabondo. Anche quando suono o improvviso procedo per immagini, come se facessi una colonna sonora in tempo reale».