In tour dal prossimo anno e, si vocifera, con un disco in arrivo: torna la storica band che ha portato la rivolta femminile nel cuore del punk e rilancia la lotta per i diritti delle donne, con parole, suoni, e urgenze oggi più attuali che mai

La notizia del ritorno delle Bikini Kill è, di questi tempi, una boccata di aria fresca. Paladine di un punk rock femminista e privo di compromessi, la band di Olympia, che si era riunita nel 2019 dopo un lungo iato che durava dal 1998, torna a far sentire la propria voce con un lungo tour mondiale che partirà dall’Australia a febbraio 2023 e toccherà diverse città in Canada e negli Stati Uniti.
Si parla sottovoce anche di un prossimo album che dovrebbe vedere la luce entro la fine del 2023. Ma chi sono e cosa hanno rappresentato le ragazze in rivolta? La storia della band di Olympia inizia nel 1990. Gli anni del repubblicano George H.W. Bush che fu presidente fino al 1993. Con lui e con il predecessore Reagan gli Usa si proponevano come poliziotto del mondo. Il figlio di Bush, George Bush come presidente dal 2001 fino al 2009 completò l’opera con l’invasione dell’Iraq, in nome della Bibbia e dell’esportazione della democrazia.
Come spesso accade, ad una forza oscurantista e regressiva, si oppongono mille spinte libertarie e progressive anti-sistema. In quel periodo fiorì negli Usa una forte protesta nutrita di una forte coscienza critica verso le istituzioni e la società americane, basti pensare all’impegno politico orientato a sinistra di band come i Rage against the machine e i Fugazi e alle loro battaglie contro capitalismo e globalizzazione.

È proprio in questo fertile humus che attecchiscono le radici della rivolta, in questo caso tutta al femminile, condotta da Kathleen Hannah e dalle Bikini Kill. I fiori saranno colorati e profumatissimi e trasformeranno la modalità di partecipazione delle donne al movimento punk oltre ad offrire nuove forme di approccio alla produzione musicale e alla diffusione di creazioni nuove: autopromozione, autodistribuzione, autoproduzione, ma soprattutto nuove idee.

Ma veniamo alla storia del gruppo: le Bikini Kill si formano a Olympia nel 1990 quando Kathleen, dopo aver lavorato prima da Mc Donald’s e poi come stripper in un bar, unisce le proprie forze con le altre della band con lo scopo ambizioso di avviare una piccola rivoluzione sociale e politica attraverso la musica punk-rock. Ma non il punk nichilista del “no future” alla Sex Pistols, bensì l’onda lunga che va dalla working class punk attitude dei Clash ed arriva fino allo “straight edge” (curiosa declinazione anti-droga e con al centro la cura di sé stessi) nata a Washington DC negli anni Ottanta grazie a band come Minor Threat e Government Issue fino ai Fugazi.

Rivoluzione interiore prima di tutto. Rivoluzione nei gesti e nelle parole. «That girl, she holds her head up so high. I think I wanna be her best friend. Rebel girl Rebel girl. You are the queen of my world /Quella ragazza, tiene la testa in alto. Penso di voler diventare la sua migliore amica. Ragazza ribelle. Ragazza ribelle. Sei la regina del mio mondo».
Ascoltando le liriche di questa canzone ho sempre pensato che Kathleen Hannah si rivolgesse a sé stessa. Una auto-proclamazione a regina del proprio mondo, un mondo nuovo in cui le donne assumano un atteggiamento attivo e propositivo in netta contrapposizione alla passività tenuta fino a quel momento nei confronti di un universo centrato solo sul maschile  trasformatosi in terra di conflitto e violenza sulle donne stesse. Il titolo del primo demo era  già programmatico Revolution girl style now!

Durante i primi concerti Hannah si fa subito notare per la particolare attitudine ad affrontare fisicamente e dialetticamente quella parte del pubblico maschile che provava a schernirla. Ricordiamoci che all’epoca i concerti punk, molto più di oggi, erano frequentati essenzialmente da ragazzi. Kathleen invitava le ragazze a farsi avanti «girls to the front!» e riempire le prime file di fronte al palco. Parallelamente ai concerti e agli album le Bikini Kill stampavano una fanzine, una piccola rivista autoprodotta, dal titolo Bikini kill zine.
Nel secondo numero della fanzine si trova il loro manifesto: The riot grrrill manifesto. Già al primo articolo si capisce quale sarà l’orientamento e la sfida delle Riot Grrrlls. Una
dichiarazione di alterità contenuta proprio in quelle ultime quattro parole: «In our own ways/A modo nostro») «Because us girls crave records and books and fanzines that speak to US that WE feel included in and can understand in our own ways/ Perché noi ragazze facciamo dischi, libri e fanzines che parlano di noi e di quello in cui ci sentiamo incluse e che possiamo comprendere in un modo che sentiamo nostro». E ancora: «Because we must take over the means of production in order to create our own meanings. Andare oltre il significato di produzione standardizzata per poter creare i nostri peculiari significati». Difficilmente mi è capitato di leggere una visione tanto lucida e sprezzante del modello di potere imperante che Kathleen Hannah definisce la «Macho gun revolution» e contro cui si scaglia con tutta la sua creatività.
Queste prime ed importantissime dichiarazioni di “diversità” non schiacciano l’uomo al margine o alla sottomissione o peggio all’esilio culturale, ma sono semplici dichiarazioni di esistenza e vitalità femminile e femminista.

Il Riot Grrll Manifesto è  un programma per la liberazione del corpo e della mente che usa come strumenti di lotta l’attivismo e l’ironia. In questo senso le performances dal vivo, la distribuzione delle fanzine e delle cassette ai concerti è tutto parte di un piccolo piano dal basso per “rivoluzionare l’America” e poco importa se, come un tempo era stato agli inizi per gli stessi Clash, l’approccio agli strumenti è ancora un po’ grezzo e naif.
Le Bikini Kill, che prendono forma consolidata con Tobi Vail alla batteria, Kathy Wilcox al basso e Billy Karren ed Erica Dawn Lyle alle chitarre, sanno che l’ultimo dei loro desideri e direi anche delle loro aspirazioni è affermarsi e avere successo nel mainstream. Inutile dire che questa “non aspirazione” troverà conferma sia nelle vendite e nell’afflusso del
pubblico ai concerti, sempre più numeroso certo, ma mai folla oceanica. Tornando al manifesto, le ragazze dichiarano di «essere interessate ad una produzione musicale
non gerarchica più in connessione con l’essere, fare amicizie e creare scene musicali basate sulla comunicazione e la comprensione in netta opposizione alla competizione e alla categorizzazione bello/brutto». Una dichiarazione anti-establishment musicale.
Dunque, nonostante la maggior parte del rock underground americano strappi contratti milionari con le major (Nirvana e Sonic Youth accasati alla Geffen e R.E.M. alla Warner Bros, per dirne solo alcuni) le Bikini Kill si presentano al pubblico prima con un album in condivisione con Huggy Bear nel 1992 e poi, nel 1993, con Pussy Whipped con pezzi cortissimi e profondamente anti-commerciali.

I testi sono ancora più decisi e politicizzati e le polemiche infuriano sopra e sotto al palco. In questi anni, ma anche in seguito, le Bikini Kill diventeranno il bersaglio preferito di alcuni “haters” (indovinate un po’? Tutti uomini), sia ai concerti che nella sede della loro etichetta, la K records, in cui arriveranno lettere che trasudano odio e minacce. Kathleen Hannah non si è mai particolarmente scomposta di fronte a queste ondate di violenza, anzi ha sempre rilanciato ricordando spesso che : «BECAUSE we hate capitalism in all its forms and see our main goal as sharing information and staying alive, instead of making profits of being cool according to traditional standards/Perchè noi odiamo il capitalismo in tutte le sue forme e vediamo il nostro scopo principale nel condividere informazioni e cercare di restare vive invece di fare profitto attraverso standard tradizionali considerati “giusti” o “cool”».
Ma quello che deve aver fatto davvero irritare i “machos americani” deve essere stata questa ulteriore dichiarazione di separazione rispetto alla figura femminile classica tradizionale: «Because Bwe are angry at a society that tells us Girl = Dumb, Girl = Bad, Girl = Weak. Perché siamo arrabbiate verso una società che contempla queste equazioni Ragazza=Idiota, Ragazza=Male, Ragazza=Debole». Ed è interessante ritrovare assonanze ad  alcune di queste dichiarazioni di libertà e alterità nelle grida di protesta delle donne iraniane, a dimostrare che la lotta per la liberazione della donna non è ancora finita.

Ma torniamo alla nostra storia: nel 1996 esce il loro album da studio dal titolo programmatico Reject all american che si potrebbe tradurre con «Rifiuta tutto ciò che è americano». La scrittura si infittisce e si complica leggermente senza perdere un grammo della rabbia positiva dei primi lavori. I testi rimangono legati a doppio filo al manifesto con cui questa storia era cominciata con coerenza e pulizia. In “Statement of vindication” Hannah urla «Specchio specchio delle mie brame. Chi è la più bella del reame? Davvero non mi interessa, lo sai. Davvero non mi interessa, lo sai. Non è proprio importante».

C’è ancora il tempo per Singles raccolta di singoli uscita nel 1998 e poi la storia si chiude. Ci sarà una reunion nel 2019 che poco o nulla aggiunge alla parabola di questa band leggendaria che ancora stupisce per determinazione e volontà di cambiamento dal basso. La forza dell’ultimo punto del manifesto è incontrovertibile e Hannah in questo caso, parlando in prima persona, se lo intesta interamente e ne fa scudo e lancia di una battaglia ancora tutta da combattere in nome della liberazione femminile:«Because I believe with my whole heart-mind-body that girls constitute a revolutionary soul force that can, and will change the world for real/Perché Io credo con tutto il mio intero cuorementecorpo che le ragazze costituiscono una forza dell’anima che può e vuole cambiare il mondo davvero» e se ci fosse ancora qualche dubbio sul fatto che è necessario combattere/vivere/cercare/formarsi per avere ragione del sistema contro cui ci si scaglia il manifesto si chiude con una celebre citazione di Bertolt Brecht: «A chi non sa che il mondo è in fiamme non ho niente da dire».