«La speranza per l'Iran viene da questi ragazzi che non accettano più che la loro identità venga cancellata», dice l'autrice di "Leggere Lolita a Teheran". E aggiunge: «La prima cosa che un regime totalitario fa è confiscare la tua storia, crede di poterti privare della tua identità per imporre la sua legge, le sue prediche su di te. Non a caso il primo target dei regimi sono le donne, le minoranze, chi esprime una cultura differente»

La scrittrice iraniana Azar Nafisi non ci dorme la notte per l’apprensione, la speranza e insieme il dolore per quanto sta avvenendo in Iran, incendiato da una straordinaria rivoluzione non violenta, laica, che vede le donne in prima fila, ma repressa violentemente dal regime degli ayatollah. Non passa giorno senza notizie di stupri, violenze impiccagioni in un crescendo agghiacciante che lascia senza fiato.

Ma nonostante la strage di giovani che il regime teocratico sta compiendo in modo criminale e inaccettabile «la rivolta non si fermerà, è inarrestabile il cambiamento che sta avvenendo in Iran», dice l’autrice del bestseller Leggere Lolita a Teheran, che è stata a Roma a dicembre per incontrare i lettori in occasione dell’uscita dell’edizione Adelphi del suo Quell’altro mondo. Nabokov e l’enigma dell’esilio e mentre è da poco uscito negli Stati Uniti il suo nuovo Read Dangerously: The Subversive Power of Literature in Troubled Times che parla della forza sovversiva della letteratura, dell’esigenza di conoscere, di ricerca della verità umana (sarà tradotto e pubblicato da Adelphi nel 2024).

Dopo essere stata cacciata dall’Università di Teheran dove insegnava, Azar Nafisi dal 1997 vive negli Usa. Intervistata da Le Monde ha raccontato di aver capito immediatamente che qualcosa di eccezionale stava accadendo in Iran quando mesi fa suo marito, che più di lei segue quotidianamente quel che accade nel Paese, le ha detto che i manifestanti gridavano “donna, vita, libertà”: lo slogan delle donne curde, ispirato agli scritti del leader del Pkk Abdullah Öcalan che l’autocrate turco Erdoğan ha seppellito vivo in un carcere su un isola, in totale isolamento.

«Quello slogan mi ha fatto subito capire che la posta in gioco della rivolta è assolutamente vitale», ha detto Azar Nafisi alla testata francese. «Questo movimento ha un obiettivo: recuperare la vita, perché la Repubblica islamica ci ha privato della vita che abbiamo sempre desiderato. Riprendendoci la libertà, riavremo anche la nostra vita perduta. La lotta degli iraniani non è solo resistenza politica ma lotta esistenziale». Vuole la fine del regime questa rivolta giovanile che è esplosa dopo la morte della ventenne curda iraniana Masha Amini causata dalla polizia della morale che l’ha massacrata di botte per una ciocca fuori posto.

«I manifestanti sanno che questo regime non può essere riformato. Vogliono la caduta del sistema, cioè una rivoluzione», dice Nafisi. «A questo punto non è più il popolo ad avere paura. Parliamo di decine di migliaia di giovani che si riversano nelle strade e nelle piazze, gli sparano addosso, ma loro il giorno dopo ritornano in piazza, allora cosa fanno? Non li possono ammazzare tutti, non li possono mettere tutti in prigione».

In questa situazione cosa può fare l’opinione pubblica internazionale? Cosa può fare la scrittura e la letteratura per dare sostegno alla lotta nonviolenta chi manifesta e troppo spesso finisce ingiustamente in carcere e alla forca? A queste domande cruciali che ci riguardano da vicino e che interrogano il suo ruolo di ex docente e oggi scrittrice di fama mondiale Azar Nafisi ha risposto con generosità durante il suo recente tour in Italia durante l’incontro a Più libri più libri e poi alla Libreria Nuova Europa, intervistata rispettivamente fa Michela Murgia e dal traduttore, docente e scrittore Edoardo Rialti. Ed è proprio in questa seconda occasione, più intima e diretta, che la scrittrice è andata più in profondità, parlando della sua formazione cosmopolita, dell’àncora che la letteratura ha rappresentato per lei per resistere al regime e poi negli anni di esilio, della curiosità e dell’interesse verso l’altro, lo sconosciuto, che spinge a leggere e scrivere. Ecco qualche passaggio delle sue riflessioni sull’immaginazione e su quella straordinaria democrazia che è la letteratura che non conosce confini e barriere. Tema appassionante su cui avemmo l’occasione di parlare nel 2015 quando uscì il suo libro La repubblica dell’immaginazione .«Avere immaginazione, avere fantasia significa essere curiosi. La curiosità è sovversiva diceva Nabokov. Letteratura e scienza da questo punto di vista procedono sullo stesso binario, entrambe si basano sul desiderio di sapere, sul piacere quasi sensuale di conoscere il mondo, l’ignoto, lo straniero. Per questo c’è bisogno di empatia, quel sentimento senza il quale non possiamo sopravvivere e che ci lega gli uni con gli altri», racconta Azar Nafisi. «L’arte non funziona con mezzi ideologici, funziona sul piano esistenziale. L’arte è ciò che ci induce a guardare in faccia noi stessi. Per questo –  ha esordito la scrittrice nell’incontro alla Libreria Nuova Europa di Roma –  vorrei chiedervi il permesso di raccontarvi una storia, lo faccio in ogni volta che ho la possibilità e l’occasione di parlare per ricordare una mia studentessa: Rosie».

La vicenda risale a quando Azar Nafisi insegnava ancora in Iran. Fra le allieve del corso di romanzo c’era una giovanissima dal viso minuto e dai grandi occhi che sbucavano dal velo. Era figlia di una donna delle pulizie che aveva perso il marito. Musulmana praticante, Rosie si era subito segnalata per la sensibilità e l’intelligenza brillante. Studiando letteratura si era innamorata delle indipendenti figure femminili immaginate dallo scrittore americano Henry James. «Quando entri nel mondo della letteratura, così come quando entri in una libreria, varchi i confini», fa notare la scrittrice, un’esperienza che ha vissuto fin da piccolissima quando suo padre, Ahmad Nafisi, entrava nella sua stanza per raccontarle ogni sera una storia diversa, portandola in Italia con Pinocchio, in Francia con piccolo principe, in Inghilterra con Alice. E all’università capitava anche a Rosie che non era stata altrettanto fortunata da piccola da poter godere come la scrittrice dell’affetto e degli stimoli di un padre che era stato il più giovane sindaco di Teheran all’epoca dello scià, e di una madre, Nezhat Nafisi, che fu fra le prime donne a sedere nel Parlamento iraniano.

Finito il corso Nafisi non vide più la giovane studentessa, se non una volta per strada durante un periodo di feroce repressione come ce ne sono stati in Iran. Rosie le fece un cenno per farle capire che era meglio non salutarsi in pubblico. «Quella fu l’ultima volta che la vidi. Anni dopo un’altra mia studentessa mi disse di essere stata in prigione con Rosie e che in quei giorni terribili riuscivano a sorridere parlando dei personaggi di James e di Fitzgerald». Ma poi successe un fatto terribile. Se delle due ragazze fu rilasciata l’altra fu uccisa del regime. «Henry James non aveva salvato Rosie – constata dolorosamente Nafisi -. Quando hai perso ogni speranza l’unica cosa che resta è ciò che ci parla della dignità dell’essere umano. Allora ti rivolgi all’arte, alla letteratura, alla musica e alla poesia. Quelle sono le molle che riattivano memorie profonde. L’arte è la miglior vendetta sulla distruzione e sulla morte».
È quello che sanno anche i giovani manifestanti di oggi in Iran, che sfidano il regime a mani nude, come il 23enne Majidreza Rahnavard, che prima di essere impiccato, quando atrocemente gli è stato detto di esprimere l’ultimo desiderio ha detto: non venite a pregare sulla mia tomba, non venite a leggere il Corano ma a fare musica allegra.

 

Come lui sono stati mandati alla forca altri giovanissimi mentre tante ragazze, per il solo fatto di essersi tolte il velo ed aver manifestato pacificamente, sono state stuprate a morte, uccise di botte.

«È drammatico e inaccettabile. Ma la speranza per l’Iran viene proprio da questi ragazzi che non accettano più che la loro identità venga cancellata», rimarca Azar Nafisi. «La prima cosa che un regime totalitario fa è confiscare la tua storia, crede di poterti privare della tua identità per imporre la sua legge, le sue prediche su di te. Non a caso il primo target dei regimi sono le donne, le minoranze, chi esprime una cultura differente». Non a caso, ricorda la scrittrice, i primi dipartimenti che furono chiusi dagli ayatollah furono quelli umanisti. Khomeini diceva che le facoltà umanistiche erano più pericolose delle bombe, perché instillavano nella mente dei giovani il veleno delle idee occidentali. Contemporaneamente il regime smantellò le leggi che proteggevano le donne, cancellando il divieto di matrimonio sotto i 18 anni, legalizzando la poligamia e i matrimoni temporanei che permettono di noleggiare una donna, condannando le donne alla morte per lapidazione se accusate di adulterio. Rispetto a tutto questo le donne iraniane non hanno mai smesso di combattere. Già all’indomani della rivoluzione scesero in piazza in massa non appena fu paventato l’obbligo del velo. Nonostante questo di lì a poco fu emessa la fatwa che lo imponeva.

«L’Iran è uno dei Paesi che fra i primi ha avuto donne ministro. Le donne hanno sempre svolto le più varie professioni prima dell’arrivo del regime teocratico – ricorda Nafisi – ma la cosa che mi ha sempre stupito molto vivendo negli Stati Uniti e che tutto questo ai più è sconosciuto. Ad ogni conferenza o incontro pubblico c’è sempre qualcuno che mi dice, lei non fa testo, lei è occidentalizzata. “Quella è la loro cultura”. Come possiamo accettare lapidazioni, i matrimoni a 9 anni, decapitazioni? Se tout court la cultura iraniana viene identificata con quelle pagine nere, allora – conclude la scrittrice – dovremmo dire che la cultura europea è il fascismo e il nazismo, che quella statunitense si identifica interamente  con il genocidio degli indiani e lo schiavismo. Ogni cultura ha qualcosa di cui vergognarsi. Ogni cultura ha il diritto di cambiare».