Con una circolare datata 25 dicembre 1926 l’allora governo capeggiato da Mussolini fissò l’obbligo, a partire dal 29 ottobre dell’anno successivo di aggiungere, in numero romano, accanto a quello dell’era cristiana l’anno che indicava l’avvio dell’era fascista. L’inizio fu datato retroattivamente al 29 ottobre del 1922, giorno successivo a quello della Marcia su Roma, giorno in cui non ci si era proprio resi conto di tanto evento. Il nuovo modo di scrivere il calendario durò fino al 1943, fatto salvo per il territorio della Repubblica di Salò dove rimase in vigore fino al 1945.
L’ attuale anno 2022 che volge al termine è coinciso con il centenario di quella data e sono stati pubblicati molti libri; l’argomento è stato analizzato da importanti storici da vari punti di vista, componendo una sorta di mosaico per la comprensione di come sia avvenuto che il re Vittorio Emanuele III di Savoia abbia affidato l’incarico di fare il governo a Mussolini, che era a capo di un partito rappresentato nella Camera dei Deputati da soli 35 rappresentanti. Claudio Fracassi, giornalista, scrittore e storico, con il libro La marcia su Roma, 1922. Mussolini, il bluff, il mito (edizioni Mursia 1921), attraverso il metodo del giornalismo d’inchiesta ci racconta quei giorni.
Fracassi ha cominciato a scrivere sul quotidiano Paese sera, ricoprendo l’incarico di corrispondente estero da Mosca, per poi diventarne direttore fino al 1989. Successivamente ha fondato il settimanale Avvenimenti.
Autore di libri storici come La meravigliosa storia della repubblica dei Briganti, Roma 1849, Matteotti e Mussolini 1924. Il delitto sul lungotevere, Cola di Rienzo. Roma 1347 ha altresì analizzato i meccanismi dell’informazione con testi diffusi anche all’estero come Sotto la notizia niente. Saggio sull’informazione planetaria, Le notizie hanno le gambe corte, Bugie di guerra: l’informazione come arma strategica. Nel periodo in cui è stato a Mosca si è dedicato alla conoscenza dei Paesi dell’ex Urss e in particolare della condizione femminile attraverso reportage come Il ciclone Natascia e la biografia Alessandra Kollontaj e la rivoluzione sessuale in cui racconta l’importante figura della rivoluzionaria bolscevica di cui, come lui stesso ammette, a distanza di vari decenni dalla morte, si è letteralmente e letterariamente innamorato. Insieme a lui ripercorriamo il momento d’inizio di quel periodo nefasto per la storia del nostro Paese che solo sessantuno anni prima era stato finalmente unificato.
Fracassi, come mai ha sentito l’esigenza di scrivere un libro sulla Marcia su Roma? Può essere considerata come un colpo di Stato o una rivoluzione?
Scrivo libri di storia, più che per raccontarla, per impararla. Se un evento ti appassiona o ti coinvolge, o ti lascia interdetto perché le spiegazioni che hai appreso ti paiono poco convincenti, ti viene voglia di cercare le informazioni che ti mancano. Questo ho imparato facendo il giornalista. Della Marcia su Roma ho letto a suo tempo, a cominciare dal grande e pieno di ironia racconto di Emilio Lussu Marcia su Roma e dintorni. Ma devo confessare che, alla fine, rimanevo pieno di dubbi. Che cosa ha cambiato, la Marcia? E’ stata una rivoluzione? È stato un colpo di stato? O se no, che cosa? Ecco, cercare le fonti, poi mettere le informazioni una accanto all’altra, può aiutare molto. Può aiutare a imparare che cosa è successo, e dunque forse a capire perché. Forse.
Possiamo dire che dietro la Marcia su Roma non ci furono solo i fascisti ma anche la Confindustria e quelli che verranno successivamente definiti “I poteri forti”?
Altro che, se possiamo. Andando a cercare negli archivi chi erano i protagonisti, quelli che nei giorni della Marcia passavano pomeriggi e nottate accanto a Benito Mussolini – a Milano, nella sua abitazione o nella redazione del suo giornale, Il Popolo d’Itala – veniamo a sapere che non si trattava di impavidi giovani marciatori fascisti, ma di intraprendenti ed eleganti signori di mezz’età; cioè, al completo, il gruppo dirigente di Confindustria, con simpatici e ben noti cognomi di famiglia (Agnelli, Falck, Pirelli…). Due di loro, alla fine, accompagnarono in treno Benito Mussolini, sul “direttissimo” Milano-Roma, per affidarlo con fiducia ad un altro signore, autorevole ma meno elegante, che di nome era Vittorio Emanuele, e di mestiere re.
Quale fu la posizione del partito socialista che pure aveva raggiunto il massimo del suo peso politico, anche se solo l’anno prima aveva subìto la scissione del partito comunista d’Italia? E quella del sindacato?
Viene voglia di stendere un velo di vergognoso oblio. È una delle pagine che, nella storia gloriosa e sanguinosa delle lotte sindacali in nome dei lavoratori, andrebbe strappata. Il segretario della Cgil, attraverso un paio di comunicati-stampa, fece sapere che non era il caso di immischiarsi in faccende altrui, come il fascismo in espansione, le Marce, i governi in formazione, eccetera. Si badi, il segretario sindacale che esortava alla neutralità non era un prezzolato al servizio di Mussolini. Era, semplicemente, una persona – tra le tante – che non aveva capito niente, ma proprio niente, di ciò che stava succedendo in Italia. Altri antifascisti – da Salvemini, a Gramsci, a Matteotti – non la pensavano così, e lo dicevano, ma erano in minoranza. A leggere, oggi, uno dei grandi discorsi di Giacomo Matteotti alla Camera, ti vengono le lacrime.
Dalla carneficina della guerra alla distruzione della Repubblica democratica liberale che pure aveva portato l’Italia alla vittoria. Come è stato possibile? Quanto l’atmosfera culturale di quel periodo ha influito?
Fa bene a ricordare la guerra. Sui campi di battaglia l’Italia aveva appena visto morire poco meno di settecentomila persone, in maggioranza giovani. Mezzo milione di ex-soldati erano invalidi, non potevano lavorare. In Europa i morti erano stati nove milioni. E poi le fucilazioni, le ferite auto-inflitte per venire via dalla trincea, e le fucilazioni e il milione di italiani, militari e civili, che i medici giudicavano irrimediabilmente devastati nel fisico e nella mente. E poi c’erano i futuristi che cantavano: noi vogliamo esaltare «l’amor del pericolo, il movimento aggressivo, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno». Non si capisce il fascismo con le sue tragedie senza ricordare la guerra che l’ha preceduto.
Le donne avevano sostituito gli uomini al fronte. Il regime fascista come si pose nei loro confronti?
C’è tutta un’enciclopedia sui rapporti fra il duce e le donne, sulle amanti eccetera. Lasciamo stare. Ma il riferimento più interessante che scartabellando ho trovato è di natura, diciamo così, filosofica, e fa parte di un’intervista ad un giornalista tedesco, Emil Ludwig. «La donna, sostiene Mussolini, deve solo obbedire. La donna è analitica, non è sintetica. La mia opinione della sua parte nello Stato è in opposizione a ogni femminismo. Naturalmente la donna non deve essere una schiava, ma se le concedessi il diritto politico-elettorale mi si deriderebbe. Nel nostro Stato essa non deve contare».
Mussolini e D’Annunzio: amici o antagonisti?
D’Annunzio era molto popolare, ma Mussolini, con furbizia, lo stava superando. E la marcia su Roma, per un personaggio con un gran senso teatrale come era il futuro duce, era una tappa decisiva, non tanto da vincere, ma da celebrare come fosse una vittoria. D’Annunzio chiamava alla ribellione contro la guerra tradita. Gli slogan fascisti esaltavano la guerra come «avventura, record, spettacolo». D’Annunzio, per non perdere, cercò addirittura di organizzare una sua marcia, il 4 novembre giorno della vittoria. Ma Mussolini lo anticipò con l’evento annunciato per il 28 ottobre. E D’Annunzio, che fra l’altro era caduto da una finestra della sua villa sul lago di Garda, fu costretto a ritirarsi dalla scena.
I suoi testi, nati da ricerche di archivio puntigliose, sono ricchi di riferimenti e di note. Che tipo di immagini ci sono del periodo della Marcia su Roma?
Le immagini sono poche, e tutte dello stesso tipo, poco attraenti: si vedono un po’ di marciatori che sfilano faticosamente per la città. Molti romani erano venuti a vedere, e anche a divertirsi, perché i nuovi arrivati erano poco marziali, zuppi di pioggia. Badi bene, sono immagini scattate non sabato 28, ma martedì 31 ottobre, quando, sulla base di un accordo fra il futuro Duce e il re, era stato infine concesso a un corteo di attraversare rapidamente la capitale, passando sotto il balcone reale al Quirinale, poi imboccando via Nazionale, raggiungendo la stazione Termini e di lì prendendo il treno verso casa. Era bastata un po’ di furbizia del generale Pugliese, che comandava le forze armate dell’esercito di stanza a Roma, per far fallire la storica e solenne marcia prevista sabato 28 ottobre. Pugliese aveva fatto saltare alcuni binari intorno a Roma, dirottato qualche treno verso il mare, e disinnescato dunque il progettato assalto alla capitale. All’alba di sabato 28 il Consiglio dei ministri aveva deliberato lo stato d’assedio, ma il re non aveva firmato quell’ordine. Insomma, in realtà la Marcia su Roma non ha mai avuto luogo. Questo dice la Storia. Eppure, nonostante il fallimento dello spettacolo, la Storia dice anche che il fascismo diventò regime, per vent’anni. Credo che ci sia ancora molto da raccontare. E da capire.