Giornata della memoria: viaggio ad Amsterdam sulle tracce delle vittime dell'Olocausto

Ad Amsterdam il numero 263 di Prinsengracht (Prinsen, principe, gracht, canale d’acqua in città, strade e case da entrambi i lati) è l’indirizzo dell’alloggio segreto dove Anna Frank ha abitato con la madre Edith e il padre Otto, la sorella Margot, la famiglia van Pels, Hermann, Auguste, il figlio Peter e Fritz Pfeffer dal 6 luglio 1942 al 4 agosto 1944 quando vennero tutti arrestati ed inviati in differenti campi di concentramento. Tutti morirono tranne Otto che riuscì a tornare alla fine della guerra.

Otto recupererà il diario di Anna da Miep Gies, una delle persone che li avevano aiutati a sopravvivere nascosti. Alla fine della seconda guerra mondiale la casa intera doveva essere demolita, ma fortunatamente nel frattempo era stato pubblicato il Diario (che come noto ebbe diverse versioni) prima in olandese nel 1947 e poi in Francia e in Italia da Einaudi nel 1953. Venne creata una fondazione alla metà degli anni Cinquanta che acquistò la casa e il 3 maggio 1960, dopo gli opportuni restauri, la casa diventò un museo aperto al pubblico.

Allora ero un ragazzo e sono capitato spesso ad Amsterdam nel 1960 perché mio padre Luciano stava cercando i luoghi dove girare il film La ragazza in vetrina che sarà completato nel 1961. Alla sceneggiatura partecipa anche Pier Paolo Pasolini. Non sapevo dell’apertura della casa museo di Anna Frank e probabilmente non avevo ancora letto il Diario.

Il giorno della memoria è stato istituito dall’Assemblea generale delle Nazioni unite il primo novembre 2005 fissandolo il 27 gennaio di ogni anno, ricordando la data dell’entrata delle truppe sovietiche nel campo di sterminio di Auschwitz dove erano stati portate le otto persone arrestate nel rifugio segreto ad Amsterdam. Dopo qualche tempo Anna e la sorella Margot vennero deportate a Bergen-Belsen dove morirono a causa del tifo prima Margot e poi Anna nel febbraio 1945. Otto, liberato dai Russi da Auschwitz, al ritorno in Olanda viene a sapere della morte di tutti gli altri.

A noi ragazzi negli anni Cinquanta non si parlava, nemmeno a scuola, quasi per nulla della seconda guerra mondiale, degli stermini, delle atrocità, dei morti, della guerra civile. Delle colpe. Si doveva dimenticare, si voleva che si dimenticasse. E ognuno di noi si è dovuto creare una conoscenza più o meno approfondita di che cosa era successo con i libri, i film, il teatro, e con le conoscenze di altre persone.

Una breve premessa per entrare, di nuovo, nella casa di Anna Frank. Nelle stanze “normali” dove si svolgeva il lavoro anche del padre Otto. Una cosa che colpisce subito e che resta impressa sin dal primo momento è il silenzio. Nessuno parla, si sentono solo i rumori dei passi sui pavimenti di legno. Quei pavimenti che non bisognava calpestare durante la giornata, così come non bisognava parlare ad alta voce, andare in bagno, nulla che producesse rumore perché nessuno potesse capire dal piano di sotto che lassù c’era nascosto qualcuno. Si arriva all’armadio, al famoso armadio pieno di libri, piccolo, leggero che copriva l’entrata dell’alloggio nascosto. E la scala ripida, di legno, che non bisognava salire per non essere scoperti. Le stanze che sono rimaste con le stesse decorazioni, con alcuni oggetti di allora. Qualche cosa è rimasto.

Tutti sono in silenzio perché sanno che lì dentro c’era una umanità che stava cercando di salvare la propria vita, in cui delle altre persone rischiavano la vita per aiutare quelli che erano nascosti. Tutti in quelle piccole stanze, ognuno con il suo piccolo spazio. Sapendo noi al contrario di coloro che lì abitavano che cosa sarebbe successo dopo, la separazione, la morte, tutto documentato ovviamente dai solerti funzionari tedeschi che dovevano annotare tutto, lasciare tracce di tutto, in un delirio di efficienza anche se oramai tutti avevano capito che la guerra era persa, che tutte quelle morti ulteriori nei campi di concentramento erano ancora se possibile più insensate, più inumane. Era per i tedeschi una pratica burocratica da portare avanti, si ubbidiva agli ordini, e le persone erano dei numeri di cui tenere il diario inumano. E si trovano i nomi dei Frank nelle liste. Tra l’altro era vietato agli ebrei di andare a scuola, all’università, solo due ore per fare la spesa, vietato andare in auto, in tram, in treno, solo sulla bicicletta propria. D’altra parte “non erano esseri umani”.

La cosa che più mi ha colpito è la frase messa verso la fine della visita, di quelle piccole stanze piene ancora dei loro abitanti, di quando Anna Frank ha sentito alla radio inglese che gli alleati sono sbarcati in Normandia. Su un grande pannello le parole di Anna Frank: «Martedì 6 giugno 1944: Carissima Kitty, This is D-day, disse alle 2 la radio inglese…l’invasione è cominciata…la cosa più bella è che io ho la sensazione che stiano arrivando degli amici…il pensiero degli amici e della salvezza ci riempie nuovamente l’animo di fiducia». L’arresto da parte della Gestapo avvenne il 4 agosto 1944.

A una ventina di minuti a piedi dalla casa di Anna Frank un bellissimo palazzo nobiliare di una ricca e potente famiglia olandese i Van Loon, sul canale Keizersgracht 672, che è divenuto museo Van Loon, con giardino dall’altra parte del palazzo, e un altro edificio per le carrozze. Molti i dipinti, in particolare di de Witt. Un ruolo importante della famiglia nella storia olandese, Willem fu uno dei fondatori della compagnia Olandese delle Indie nel 1602. Molti membri della famiglia, divenuti nobili nell’Ottocento, sono stati sindaci della città. Tra gli stemmi di famiglia uno colpisce perché ci sono molte teste di uomini neri. Tra le attività della famiglia, c’era anche la tratta degli schiavi delle colonie che gli olandesi avevano in Oriente. La schiavitù olandese è durata per circa due secoli. Abolita alla metà dell’Ottocento anche se alcune navi olandesi continuavano a praticarla anche dopo.

A dieci minuti a piedi del palazzo dei Van Loon vi è il più famoso museo di Amsterdam, il Rijksmuseum, dove nel 2021 si è tenuta una grande mostra Slavery sul tema della schiavitù Olandese, vennero deportati circa 2 milioni di persone. Il museo contiene molte opere di Rembrandt e di Vermeer (a cui il Rijksmuseum dedica una importante retrospettiva dal 10 febbraio 2023).

Valika Smeulders, curatrice della mostra Slavery, ha osservato che è stato fondamentale portare alla luce la storia orale a causa della mancanza di documentazioni scritte di persone schiavizzate. «Bisognava trovare dei testimoni che ricordassero. Una donna parla di sua nonna che le diceva che era uguale a tutti gli altri, uguale ai figli del padrone di casa, testimonianze di persone molto consapevoli della loro umanità pur vivendo in un mondo che voleva togliere loro del tutto quella umanità».

Una delle protagoniste al centro del racconto espositivo era Oopjen Coppit, moglie di un industriale dello zucchero Marten Soolmans che si arricchì grazie alle piantagioni in Brasile utilizzando gli schiavi. Ai due separatamente fece nel 1634 il ritratto Rembrandt van Rijn, a grandezza naturale. Il ritratto di lui è stato acquistato dallo Stato Olandese per il Rijksmuseum e quello di lei dallo Stato Francese per il Musée du Louvre. Pagati 160 milioni di euro. Non possono essere mostrati separati e si trovano alternativamente nei due musei. Sono attualmente esposti al Rijksmuseum. Non si parla di tutta questa parte della storia Olandese nelle scuole Olandesi, aggiunge la curatrice della mostra sulla schiavitù. Alla mostra vi erano alcuni collari che si pensava (o si voleva pensare) fossero per cani ma invece erano per gli schiavi. Il 19 dicembre 2022 (!) anche per le reazioni suscitate dalla mostra l’Olanda ha presentato le scuse ufficiali per il commercio degli schiavi. «Il passato non può essere cancellato, per secoli il nostro paese ha permesso, incoraggiato e tratto profitti dallo schiavismo», ha detto il primo ministro Rutte. In un cerchio di due chilometri al centro di Amsterdam ci si può confrontare con una parte importante della storia umana, cercando con difficoltà l’umanità, il senso dell’umano che si trova solo tra le vittime delle violenze e delle atrocità di una storia che sembra apparire del tutto inumana.

 

Matematico e autore di numerosi libri, Michele Emmer ha da poco pubblicato il libro Persone:dal Caucaso al cinema italiano 1915-1948 (Gangemi) e con Marco Abate, Imagine math, dreaming in Venice (Springer)