L’urlo di Dakar è un podcast prodotto da Hypercast sulla Laamb, la lotta tradizionale wolof, ponte tra contemporaneità e passato nel Senegal di oggi. Sport seguito da milioni di fan esattamente come il calcio con cui si contende la palma di “primo interesse nazionale”. Diviso in 6 puntate e parte di un progetto di più ampio respiro, il podcast diventa anche un pretesto per raccontare una delle più grandi metropoli del West Africa e indagarne riti, costumi, legami col passato, nuove tendenze musicali e slanci verso il futuro. Scritto da Raffaele Costantino, Marcello Giannangeli e Megan Iacobini De Fazio e prodotto in collaborazione con l’Istituto italiano di cultura a Dakar, il podcast è ascoltabile qui.
Abbiamo chiesto ad uno degli autori, Raffaele Costantino, come è nata questa idea, e di raccontarci alcune curiosità sul suo soggiorno a Dakar e sull’impatto di un occidentale con la cultura senegalese.
Raffaele Costantino, sei conosciuto come divulgatore di musica, sia attraverso la tua trasmissione Musical box, ormai da più di dieci anni nel palinsesto del fine settimana di Rai Rdio2 , sia attraverso la tua etichetta Hyperjazz , ma anche come producer/musicista meglio conosciuto come Khalab. Come è nata l’idea di questo podcast all’incrocio tra sport, cultura e musica?
Quando l’Istituto italiano di cultura a Dakar mi ha invitato per una residenza ho iniziato a studiare la cultura del Senegal per trovare un’ispirazione, un tema su cui incentrare il mio lavoro, ma non volevo concentrarmi esclusivamente sulla musica. Così dopo un po’ di ragionamenti e confronti con Megan Iacobini De Fazio che mi ha accompagnato nell’avventura, ci siamo appassionati sempre più alla lotta libera senegalese. Una disciplina che ha una forte componente tradizionale, che non prescinde (come ogni pratica sociale in Africa) dall’aspetto musicale e che ha influenzato moltissimo la cultura locale, anche nella sua fase di emancipazione dalle tradizioni.
Spesso torna l’idea che la Laamb, la lotta tradizionale di Dakar, sia una sorta di ponte tra passato e futuro. Antico e contemporaneo sono i termini che usi. Quanto è centrale nella cultura africana l’idea del tempo e come è vissuto diversamente rispetto alla cultura europea?
Sì, come dicevo, la lotta è un bellissimo esempio di tradizioni che si evolvono. Di popoli che quando serve sanno liberarsi della zavorra e che grazie a questo spirito riescono a coinvolgere diverse generazioni. La passione che la gente riversa su questo sport è figlia di diverse dinamiche, ma di sicuro il fattore tempo è importante. L’idea che tramite questo sport si rimanga in contatto con la propria cultura e si possa altresì intravedere una via di fuga verso il futuro. Immagina quanti giovani ragazzi senegalesi sognano di fare i lottatori da grandi, per la fama, per i soldi, per una questione di rivalsa sociale in generale. Sarebbe un percorso compreso da tutti, anche dai loro nonni, sarebbe un passaggio di testimone tra generazioni che resiste al tempo e che grazie al tempo migliora, non invecchia.
Mi sembra che dietro ogni lavoro di Khalab, esattamente come è stato per Mberra, un album uscito per Real World e realizzato insieme ai musicisti profughi del campo omonimo in Mauritania, c’è una ricerca di “suoni” letteralmente inauditi, soprattutto per le condizioni in cui vengono creati, in grado di convivere in forme e strutture nuove e collettive, piuttosto che semplicemente dare voce a esigenze artistiche ed espressive individuali. Hai usato questo approccio anche nell’ep Dk Laamb che uscirà in connessione con il podcast?
Alla fine, non so se uscirà mai un ep, credo che il podcast sia abbastanza esaustivo anche dal punto di vista del suono. Mi arrabbio sempre con me stesso quando per pigrizia intellettuale continuo a pensare a forme precostituite, senza sforzarmi di andare avanti, di guardare oltre. Mentre montavamo il podcast (dove non dovevano essere presenti i brani che poi abbiamo inserito) mi sono reso conto che poteva essere una bella sfida provare ad integrare il disco nel podcast. Mi è sembrato un esperimento interessante far sentire i brani nel podcast ed avere il podcast come strumento per raccontare la genesi della musica stessa. Sinceramente credo che questo per me sarà un possibile territorio di sintesi tra le mie diverse identità artistiche. Detto questo, rispetto al suono, io concepisco la mia attività artistica come una ricerca della sintesi perfetta. Considero la sintesi l’unico strumento fondamentale per l’innovazione, anche in ambito artistico. Ecco il perché di tanta ricerca sul campo, di tanto sperimentare sulle tecniche di registrazioni e sulla ricerca di nuove fonti sonore. In questo caso per esempio le fonti sono state i corpi umani molto grossi (ride) e le vibrazioni da essi prodotte.
Ti senti un po’ discepolo di etnomusicologi come Diego Carpitella e Alan Lomax quando vai con il tuo microfono a fare “registrazioni sul campo”? Ti affascinano queste figure e come ti senti legato a loro?
No, non scherziamo (ride). Loro erano persone serie, io sono prima di tutto un dj. Loro erano degli studiosi che studiavano per pura voglia di sapere, io ho un approccio meno accademico. Studio per applicare il risultato della ricerca ad un fine di tipo creativo, addirittura di intrattenimento. Certo gli interessi sono comuni ma i fini molto diversi. Chiaramente sono due figure che stimo immensamente.
La cultura hip-hop, di cui si parla ampiamente nel podcast, è chiaramente di matrice americana e ha ispirato e dato forma a tutti i suoi epigoni, anche in West Africa. Potresti raccontarmi quali caratteristiche rendono invece “diversa e originale” quella cultura in Senegal e quali sono i temi più ricorrenti nei testi?
La declinazione autoctona del genere in Senegal prende il nome di Galsen o Hip Hop Galsen. Un genere che si è sviluppato a Dakar già dai primi anni Ottanta. Ovviamente anche qui è legato moltissimo alle altre discipline dell’hip hop, come la danza (breakdance) i graffiti, e l’uso dei giradischi. Le informazioni all’epoca viaggiavano tramite vhs che in qualche modo arrivavano dagli Stati Uniti e dalla Francia. Alcune chiavi di volta in termini di distribuzione delle informazioni furono per esempio il concerto di MC Solar (celebre rapper francese ) a Dakar e la proiezione di un film dedicato alla cultura hip hop, Beat Street, che venne proiettato in molti cinema locali e fece aumentare la febbre a Dakar prima ed in seguito in tutta la zona, Ghana compreso. Uno dei gruppi più influenti del movimento è stato quello dei positive black soul, che univano il rap agli strumenti tradizionali come la Kora ed alla lingua nativa, il wolof. Nel podcast c’è una intera puntata dedicata al loro griot, Noumoucounda, con cui ho avuto il piacere di registrare dei brani bellissimi nel suo studio di Dakar, Karantaba Records. Nei testi, ovviamente, si parla di voglia di emancipazione e di politiche sociali e i politici lo ascoltano come termometro degli umori dei giovani, quindi ricopre un ruolo molto importante. Ma allo stesso tempo evidenzia spesso il senso di disillusione che i giovani di tutto il mondo provano come sentimento comune. Ma in generale, proprio il fatto di cantare nella propria lingua, assume l’importanza di una forte scelta politica e di consapevolezza nei giovani senegalesi.
Fa impressione il fatto che in media la popolazione senegalese abbia 18 anni, mentre quella europea 46. Come ti rapporti a questa realtà per cui stiamo segnando il passo come cultura del Vecchio continente rispetto alle culture “giovani” dei Paesi di quello che una volta veniva chiamato terzo mondo?
È il motivo per cui seguo da anni quelle scene creative. Il mio disco Black Noise 2084 uscito nel 2019 parlava proprio di questo, della mia visione di un mondo che nel futuro prossimo sarà interamente influenzato dalla cultura afrocentrica. Tutta la letteratura afrofuturistica parla di questo. Le scene creative africane, insieme ad una maggiore consapevolezza dei popoli, ad un sempre crescente livello di istruzione ed a una gestione evoluta delle enormi risorse del continente, faranno dell’Africa in generale, il luogo a cui guardare. Per quanto riguarda l’Italia, siamo chiaramente un paese invecchiato, stanco, che fatica a staccarsi dall’ancora delle tradizioni e delle convenzioni sociali, che ha paura di contaminarsi. Ma non è solo un nostro tema, tutta l’Europa soffre di invecchiamento precoce.