Il capitalismo era forte e assicurava benessere quando i governi avevano ancora la capacità di orientare le politiche pubbliche in funzione del miglioramento del benessere generale. Erano i primi decenni del secondo dopoguerra, detti anche “trenta gloriosi” o anni del “compromesso socialdemocratico”. Quel modello economico, indirizzato appunto a diffondere il benessere a strati sempre più vasti della popolazione, fu in grado di vincere la sfida col comunismo dell’Est europeo ed assicurare all’Occidente la supremazia economica sul resto del mondo. Vi è un lato oscuro di quel successo: i Paesi avanzati disponevano di una supremazia globale – che si esercitava anche con la violenza e la guerra – che gli consentiva di accedere a risorse energetiche e a materie prime a buon mercato in gran parte del mondo. Quel benessere, in breve, era assicurato anche a spese dei Paesi che non riuscivano ad uscire dalla loro condizione di povertà. Molto è cambiato tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta del secolo scorso quando, col crollo del comunismo, crollò anche ogni prospettiva di superamento del capitalismo e la logica del profitto si affermò come unico principio di governo della società e dei rapporti tra Paesi. Le grandi imprese, nella ricerca appunto del massimo profitto e nel tentativo di distruggere il potere contrattuale della propria classe operaia, frantumarono la produzione e spezzettarono le fasi di realizzazione dei prodotti, localizzandole in luoghi sempre più lontani, dove la forza dei lavoratori era inesistente. Anche grazie allo sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ITC), infatti, divenne possibile collocare i più avanzati processi produttivi in luoghi del tutto privi di tradizioni industriali.
Per chiarire le caratteristiche di questo fenomeno, fino agli anni Settanta del Novecento un Paese, per industrializzarsi, avrebbe dovuto chiudersi al commercio estero e far nascere in un ambiente protetto la propria industria nazionale. Solo dopo il consolidamento di quest’ultima avrebbe potuto aprirsi alla concorrenza internazionale. Quel percorso – seguito peraltro nell’Ottocento da tutti i Paesi industrializzati – nella seconda metà del Novecento è riuscito ad un solo Paese: la Corea del Sud. Dagli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso invece, un Paese privo di qualsiasi capacità industriale può accogliere pezzi di produzione che i paesi ricchi hanno interesse a spostare altrove, combinando tecnologia avanzata – che rimane di proprietà delle case madri – e salari di fame. Cina, India, Vietnam e tanti altri Paesi del Sud Est asiatico iniziarono così ad inserirsi all’interno di quelle catene globali del valore che, con lo smembramento di produzioni un tempo svolte all’interno dei paesi avanzati, si andavano articolando in ogni angolo del globo.
Lo sviluppo di questo nuovo modello di globalizzazione ha avuto effetti giganteschi sulle caratteristiche della produzione e sugli equilibri mondiali. Anzitutto il valore delle merci è sempre più generato a monte e a valle della produzione in senso stretto, cioè nelle fasi in cui interviene il settore dei servizi: scienza, design, progettazione, brevetti, software, coordinamento della produzione e vendita assorbono una quota crescente di risorse e di ingegno. Dunque quella che nei Paesi avanzati è vissuta come deindustrializzazione, in parte è legata a questo cambiamento della natura del processo produttivo, dove l’importanza dei servizi e del lavoro intellettuale aumenta a spese di quello manuale.
Inoltre, se da un lato la classe operaia dei Paesi avanzati si è trovata a competere con lavoratori con salari incomparabilmente più bassi, uscendone indebolita, dall’altro Paesi poverissimi hanno iniziato ad assorbire quote crescenti della produzione globale. La Cina, in particolare, combinando il potere politico del partito e le dimensioni gigantesche del Paese, è riuscita ad avviare una spettacolare crescita che, nel giro di pochi decenni, l’ha messa in condizione di disporre delle più avanzate tecnologie. Si, perché non è semplice mantenere il monopolio di una tecnologia. Lo spostamento di pezzi della produzione all’estero ha certo consentito al capitalismo occidentale di sconfiggere la propria classe operaia e accumulare enormi profitti, ma ha anche rafforzato temibilissimi concorrenti: chi ospita quelle produzioni, infatti, può formare i propri tecnici, migliorare benessere generale, costruire infrastrutture e servizi, può insomma diventare a sua volta una potenza industriale. La globalizzazione e le ITC hanno anche favorito scambi scientifici e collaborazioni tra università e centri di ricerca di tutto il mondo. La portata del fenomeno può essere illustrata da un dato: si stima che i Paesi che oggi compongono il G7, all’inizio dell’Ottocento coprissero poco più del 20% del Pil mondiale, con Cina e India che ne producevano circa la metà; da allora la quota di Pil del G7 è salita ininterrottamente, fino a superare il 70% nel 1990. Poi però, da quella data, in soli trent’anni, la quota di PIL dei paesi avanzati si è bruscamente ridotta al 43%.
All’interno dei Paesi avanzati, le classi dirigenti – accecate dall’ideologia della “fine della storia” e dall’idea che il modello economico dell’Occidente, e il suo dominio sul mondo, fossero definitivi – hanno fatto di tutto per favorire questo fenomeno, ben felici di poter sostituire la complessità del processo democratico col dominio delle regole del mercato, sottovalutando i cambiamenti che maturavano sotto i loro occhi. Negli anni della presidenza di Clinton, con l’adesione della Cina al Wto (2001) e l’avvento di internet, vi era infatti la convinzione che il regime comunista cinese non avrebbe retto a trasformazioni così profonde. Dieci anni dopo con Obama, l’America era ancora convinta che la Cina non sarebbe stata una minaccia, perché la sua inferiorità tecnologica sarebbe rimasta incolmabile. Solo con l’amministrazione Trump nasce l’allarme e, in violazione delle stesse regole della WTO, gli Stati Uniti ricorrono a sanzioni unilaterali e alla guerra commerciale per ostacolare l’avanzamento dell’economia cinese.
Secondo alcuni analisti, lo scontro tra Russia e Stati Uniti prefigura un conflitto di più vasta portata tra questi ultimi e la Cina, conflitto che peraltro sul piano economico è già in corso. Gli Stati Uniti stanno ostacolando la crescita dell’economia cinese nelle componenti hardware dell’intelligenza artificiale, in particolare nei microchip a più elevate capacità di calcolo. Il dominio su questo settore, oltre ad essere rilevante sul piano militare, è decisivo per l’avanzamento dell’intelligenza artificiale, perché da esso dipende l’efficienza nello sfruttamento dei big data. Al contempo la Cina ha compiuto enormi investimenti nel settore minerario, e dispone in particolare del controllo della filiera del litio, componente essenziale per le batterie elettriche: la Cina è presente in misura massiccia nella sua estrazione (in Cile, Bolivia, Australia e altre aree decisive), nella raffinazione e nella produzione. Questo le assicura un dominio nel campo della mobilità elettrica, che si associa a quello nella produzione di pannelli fotovoltaici, altro campo dove il Paese non ha rivali. Taiwan, altra area calda del pianeta, è centrale per l’industria dei semiconduttori, che da un lato usufruiscono di tecnologie occidentali e dall’altro sono essenziali per l’economia cinese. Le tensioni per il controllo dell’isola corrispondono dunque alla sua centralità nella produzione di quelli che ormai sono componenti essenziali di ogni prodotto e processo produttivo: sembra che si discuta se dotare queste industrie di sistemi di autodistruzione automatici ove la Cina dovesse invadere il paese.
Nella sostanza da un lato il sistema economico globale è estremamente interconnesso, dall’altro le fratture geopolitiche si accompagnano al ritorno di temi quali la sicurezza nazionale, la protezione delle industrie nazionali, il controllo delle principali materie prime e filiere produttive. Questi temi impongono anche un evidente protagonismo dei governi e spingono imprese a rivedere la localizzazione delle produzioni: compaiono termini nuovi quali reshoaring (ritorno a casa di ciò che era stato delocalizzato), nearshoring (localizzare vicino ai mercati di sbocco per avere maggiore certezza delle forniture) e friendshoaring (localizzare la produzione in Paesi amici).
L’ordine internazionale neoliberale sta dunque attraversando una profondissima crisi. Sono venuti meno, infatti, alcuni suoi presupposti essenziali. Il benessere è affluito a Paesi che si trovano in competizione con i Paesi più avanzati, generando risentimento e instabilità politica all’interno di questi ultimi; per lo strettissimo nesso che si presenta tra intervento pubblico, sviluppo tecnologico, controllo delle risorse e guerra, l’idea che lo Stato fosse di intralcio all’iniziativa privata è tramontata; il potere globale degli Stati Uniti come garanti di quell’ordine è messo in discussione, finanche nel ruolo svolto dal dollaro come mezzo di scambio per il commercio internazionale. È dunque finita un’epoca, mentre non è ancora chiaro quali nuovi equilibri potranno affermarsi.
Dietro ogni epoca storica vi è sempre un pensiero condiviso su alcune questioni capitali relative alla realtà sociale. Questo pensiero serve anche come denominatore comune all’azione dei vari attori sociali. Non è difficile individuarne di volte in volta le caratteristiche. Del “compromesso socialdemocratico” si è già detto: al fondo vi era la convinzione che la potenza economica dei Paesi industrialmente avanzati dovesse essere indirizzata a produrre un benessere diffuso, anche per mostrare la superiorità del capitalismo sui regimi comunisti dell’Europa dell’Est. Le stesse organizzazioni economiche internazionali e gli accordi che regolavano il funzionamento del commercio e della moneta, come definiti dopo la sconfitta del nazifascismo, erano volti a garantire ai singoli Paesi strumenti di politica economica atti a perseguire tali obiettivi. Il neoliberismo degli anni Ottanta e Novanta – sintetizzato dal celebre “Washington Consensus” – basava invece l’ordine interno e internazionale sui principi del libero mercato. Privatizzazioni, liberalizzazioni, libertà di spostare capitali ovunque fosse nella convenienza dell’industria e della finanza, riduzione dell’intervento pubblico e delle protezioni sociali hanno segnato l’epoca che ora volge al termine, lasciando immensi problemi non risolti: l’ambiente, la finanziarizzazione dell’economia, il ritorno della povertà nei Paesi avanzati, la mancanza di regole comuni tra i grandi attori sulla scena mondiale, di cui il ritorno della guerra è uno degli aspetti più drammatici. Lo stesso Putin potrebbe aver scommesso anche sulla fine dell’ordine internazionale neoliberale.
Troppe sono le variabili in gioco per poter prefigurare quale futuro ci attende. Procederà l’ascesa della Cina e la spinta al riequilibrio dei poteri mondiali, o avrà successo il tentativo americano di invertire la tendenza presidiando i settori tecnologicamente più avanzati? L’instabilità politica che ormai contraddistingue i Paesi avanzati – di cui il tentativo di colpo di stato di Trump è stato uno dei fenomeni più eclatanti – condurrà ad ulteriore indebolimento della capacità occidentale di governare il mondo? E la guerra in corso, porterà alla sconfitta della Russia e all’accerchiamento della Cina, o se si perverrà ad una sorta di compromesso che scongiuri esiti disastrosi? Non lo sappiamo, e non lo sanno neanche gli attori che operano negli attuali scenari mondiali: essi perseguono ciascuno i propri obiettivi, in uno scenario di forte incertezza, senza cioè la piena conoscenza delle variabili e delle forze in gioco. Sappiamo solo il futuro, come sempre accade nella storia umana, non sarà una ripetizione del passato.