A proposito del dibattito sul senso del carcere duro a partire dal caso Cospito, ecco una riflessione su come il diritto nei secoli si sia mosso nei confronti del reo tra la concezione religiosa del Male connaturato all'uomo e la fredda oggettività della dea Ragione illuministica

Sembra difficile districarsi tra la moltitudine di motivazioni volte a legittimare l’articolo 41-bis della legge dell’ordinamento penitenziario italiano, che sinteticamente viene considerato uno strumento necessario per contrastare la mafia e il terrorismo. Razionalmente si potrebbe ritenere valida questa proposizione, considerando oltretutto il contesto di forte tensione in cui è nata la legge. Ma questo dibattito che impegna sia la destra che la sinistra risulta essere un dibattito sostanzialmente sterile, soprattutto se fatto soltanto seguendo la pessima retorica politica che in questi giorni ci accompagna. È interessante invece andare a ricercare quella che potrebbe essere la mentalità che in penombra caratterizza questa legge e, in particolar modo, l’idea che sembra sottendere il discorso culturale relativo alla giustizia.

Si deve tener conto che la nostra società porta ancora i segni evidenti di quella “duplice rivoluzione borghese”, ossia l’effetto che essa ha avuto in Europa continuando da un lato a mitizzare la Ragione proclamata dalla Rivoluzione francese, e contemporaneamente dall’altro, preservando quella falsa coscienza borghese che giustifica lo status quo e che ha lasciato in mano alla religione cristiana l’altra parte dell’essere umano, ossia l’irrazionalità intesa come dimensione invisibile.

Il processo di secolarizzazione avvenuto in età moderna spesso si è ridotto a una fuorviante conversione di principi religiosi in principi laici razionali. Ciò è avvenuto soprattutto nell’idea di giustizia e nelle sue istituzionalizzazioni di matrice fortemente conservative. Il cieco e ritualistico vortice di peccato-pentimento-assoluzione-redenzione si è tramutato in reato-pentimento-assoluzione-riabilitazione. Se di certo nel reato si è affievolita, almeno in parte, la credenza di un Male connaturato nell’individuo, nel pentimento invece, si ritrova sempre con più evidenza l’idea di una confessione col fine di espiazione sociale. Mentre l’assoluzione si muove su un principio di oggettività, anche se con non poche criticità, la riabilitazione segue tutt’ora le linee guida del recupero cristiano dell’individuo. Lo scopo riabilitativo lascia uno spazio di ambiguità, come se si fosse in presenza di un arto leso che deve recuperare la propria funzionalità, mentre quello rieducativo, attraverso un catechismo comportamentale, tenta di donare attraverso una serie di codici morali la capacità al detenuto di integrarsi nella società. Se nella forma riabilitativa svanisce completamente la dimensione pedagogica, in quella rieducativa, si coglie distintamente l’eco di un pensiero religioso che irretisce la cultura occidentale e permea la semantica della giustizia. Se il principio del reinserimento sociale in sé è corretto, la fata morgana si manifesta però nel fine, che si realizza anzitutto nell’espiazione religiosa.

Si dimentica che l’istituzione carceraria rappresenta sì una necessità, ma anche un fallimento di una politica e di una cultura che prima crea e poi rinchiude i cosiddetti “mostri”, e che soprattutto vede nel cosiddetto Male una realtà inesorabile. Come affermato nel “Teorema” di William Thomas: «Se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze», la realtà allora, può diventare una mera costruzione sociale. Nei Manoscritti del Mar Morto leggiamo: «Fin dall’utero è nel peccato, e fino alla vecchiaia nella colpevole iniquità». Sulla falsariga di questo retaggio religioso, il mondo laico traduce il peccato in un’istintività animale intrinseca nell’essere umano, la quale va dominata mediante il raziocinio. «Le conseguenze» di ritenere vera questa idea conducono a pensare che la violenza, la guerra e i crimini siano una verità ineluttabile della società. Significa produrre una profezia che si autoadempie. Significa creare una realtà destinata a una coazione a ripetere, in cui il male si scontra col bene (l’istinto contro la ragione), ma dove entrambi necessitano l’uno dell’altro per continuare a esistere.

Con queste parole non si intende qui fare una rivolta foucaultiana tesa ad abbattere il carcere e la magistratura, ma senz’altro invitare a riflettere su alcuni aspetti, e a evidenziarne le lacune. Tra le quali, una mancata ricerca eziologica che consentirebbe di intervenire alla radice del problema in maniera risolutiva anziché contenitiva.
I penitenziari diventano un “non-luogo” nei quali i diritti umani sbiadiscono, perché è credenza comune che tali individui si meritino quella condizione come giusta punizione per il reato commesso. Vi è poi una colpa da espiare, che non tiene conto delle ragioni del reo. Non considera le motivazioni che sono dietro le azioni. Cercare il motivo per il quale sono stati commessi determinati crimini, viene immediatamente inteso come giustificazione. Logiche politiche di breve periodo sfamano dunque il dolore e il risentimento sociale delle persone, alle quali non si vogliono far vedere le enormi contraddizioni di questo sistema. Persone la cui autodeterminazione è spesso molto labile. Il degrado vissuto in quartieri poveri, malfamati, abbandonati dallo Stato, si somma alle esperienze familiari accidentate di ogni individuo.

Dentro le mura carcerarie che interdicono lo sguardo e la sensibilità dei cittadini liberi, si generano quelli che saranno i futuri emarginati istituzionalizzati.
In qualche modo l’iconografia ci può suggerire i vizi sovrastrutturali che reggono quest’impalcatura culturale. In Das Narrenschiff” (La nave dei folli) di S. Brant, Albrecht Durer rivela nella sua incisione un folle che benda la Giustizia per impedirle di vedere. Il gesto di bendarla sembra tradursi in una rivolta del proprio tempo nella quale si schernisce il suo potere. A quel punto Ella non può far altro che colpire a casaccio.

Nell’epitaffio inciso sulla tomba dell’anarchico Giuseppe Pinelli, leggiamo le parole di Edgar Lee Masters: «Una bellissima donna», la Giustizia, «Brandiva questa spada, colpendo ora un bimbo, ora un operaio, ora una donna che tentava di ritrarsi, ora un folle». Successivamente nell’Età dei Lumi la Giustizia si toglie la benda e acquisisce l’occhio di Dio che vede ogni cosa grazie alla Ragione. Eppure, quell’occhio sostituisce le «pupille bruciate da un muco latteo», facendo sì che il giudizio sia divino e non umano. In un secondo momento, si riappropria della benda ma questa volta la benda ha un significato di imparzialità ed equità nell’emissione del giudizio. Appare allora un paradosso, una benda che fa vedere meglio. Potremmo dunque pensare che l’egida della Ragione, impugnata dall’odierna giustizia, celi nel suo principio di oggettività, un’indifferenza verso l’umanità. La Dea si pone al di sopra di ogni cosa umana, non cadendo nei pertugi della corruzione, della minaccia, della discriminazione, ma nel medesimo istante si fa divina, fredda e distaccata.

Così riaffiora nella memoria l’incisione di Giovanni Lapi, sull’antiporta di Dei delitti e delle pene di C. Beccaria, nella quale seppure sempre sotto un principio razionale, propone una rappresentazione della Giustizia che promuove un cambiamento sociale e che “di fronte alle teste mozzate inorridisce”. Forse perché ha gli occhi aperti, vede, e si coinvolge nelle faccende umane, si chiede il perché delle cose, che non significa giustificarle. Forse la giustizia pensata come necessaria in quel «fine che giustifica i mezzi», quella del 41-bis, potrebbe essere una giustizia bendata, privata di uno sguardo umano e forse… potrebbe essere un’ingiustizia.