Per lungo tempo "trascurate" dagli studiosi e dalle antologie, le poetesse italiane del Novecento hanno saputo rinnovare in modo unico e originale il canone nazionale. E non solo. Nella Giornata mondiale della poesia il critico Lorenzo Pompeo ripercorre i profili di Pozzi, Negri, Frabotta e tante altre, invitando a leggere i due volumi de La poesia delle donne editi da Left

Per festeggiare la giornata mondiale della poesia pubblichiamo l’introduzione del libro Poesia delle donne Volume II a cura di Lorenzo Pompeo. Il volume che vede il contributo di molti autorevoli studiosi fa seguito al libro Poesia delle donne donne I uscito l’anno scorso e curato da Lorenzo Pompeo e Rosalba De Cesare. Questo volume che ha dato il la alla collana sarà presentato domani, 22 marzo a Roma, dalle 17 alla Biblioteca Quarticciolo 

L’antologia/monografia La poesia delle donne volume II edita da Left si ricollega a quella uscita l’anno scorso a cura del sottoscritto in collaborazione con Rosalba De Cesare. Nell’introduzione mi ero riproposto di dedicare allo specifico della poesia italiana lavoro supplementare. In quell’occasione avevo deciso di dedicare il saggio introduttivo a tre figure, Emily Dickinson, Anna Achmatova e Wysława Szymborska, intorno alle quali esiste un consolidato consenso a livello mondiale in relazione al loro ruolo di figure-chiave della poesia novecentesca. Naturalmente l’elenco potrebbe essere integrato da altri nomi, ma l’importanza di queste tre poetesse può essere considerato un fatto assodato.

Nel caso della poesia italiana, possiamo individuare poetesse di primo piano in relazione alla loro epoca, ma se prendiamo in esame il Novecento fino ai nostri giorni, risulta più difficoltoso individuare una o due figure-chiave dalle quali partire per descrivere e analizzare l’intero fenomeno della poesia femminile novecentesca.
Possiamo però individuare una costante che riguarda tutto il novecento italiano: la scarsa presenza dei nomi di autrici nelle antologie della poesia italiana (che però, occorre riconoscerlo, sono perlopiù curate da autori). Nella Antologia della poesia italiana (1909-1949) di Giacinto Spagnoletti edita da Guanda nel 1950 erano presenti solo due autrici (Antonia Pozzi e Alda Merini, presentata come «assolutamente inedita»). In Poesia italiana del Novecento, l’antologia curata da Edoardo Sanguineti per Einaudi e uscita nel 1969, non compare nemmeno una autrice. In Poeti italiani del Novecento curato da Vincenzo Mengaldo per gli Oscar Mondadori nel 1990 (ma uscito nel 1978 nella ben più prestigiosa collana de I meridiani) l’unica poetessa rappresentata era Amelia Rosselli. Nei due volumi della Poesia italiana del Novecento a cura di Pietro Gelli e Gina Lagorio, editi nel 1980 (quindi dopo l’auge del femminismo italiano degli anni Settanta) nella collana Grandi libri Garzanti le poetesse antologizzate, furono ben sette (Elsa Morante, Antonia Pozzi, Daria Menicanti, Margherita Guidacci, Elena Clementelli, Maria Luisa Spaziani e Giovanna Bemporad), ma inspiegabilmente non compare il nome di Amelia Rosselli. Ma neanche intorno a questi nove nomi esiste un generale consenso nei lavori dedicati allo specifico della poesia femminile italiana. Il volume Donne in poesia a cura di Biancamaria Frabotta edito da Savelli nel 1976, tra le 24 autrici antologizzate, non include Giovanna Bemporad né Elena Clementelli né Alda Merini, la quale, tra queste otto autrici nominate, è l’unica che successivamente sarebbe riuscita a guadagnarsi una certa notorietà al di fuori della cerchia degli studiosi, i quali a loro volta in parte ne disconoscono i meriti artistici. In nessuna di queste antologie citate compaiono i nomi di Ada Negri e di Sibilla Aleramo, che pure furono nella prima metà del Novecento due figure di primissimo piano (la seconda è oggi molto più nota per le prose e per la biografia).
Nel corso degli ultimi due decenni del Novecento però fortunatamente si può osservare un cambiamento radicale in favore di una presenza di autrici molto più significativa sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. Con la “stagione dei movimenti” si era affermata una nuova generazione di poeti, tra i quali alcune figure femminili giocarono un ruolo di primo piano. Molte tra le voci di questa generazione però rappresentarono un fenomeno effimero legato alla contingenza politico-culturale. A questa temperie è legata l’antologia Donne in poesia a cura di Biancamaria Frabotta, fotografia di un momento di esplosione creativa legato alle istanze del movimento femminista, che proprio in questi anni aveva raggiunto una dimensione di massa. Tuttavia tra le “giovani” poetesse di questa antologia, Patrizia Cavalli sarà l’unica a guadagnarsi una collocazione centrale sulla scena della poesia italiana nei due decenni successivi. Alcune vennero sostanzialmente dimenticate, altre, come Piera Oppezzo, sono state oggetto di una tarda e recente “riscoperta” postuma. Tuttavia un fatto è certo: questa generazione di poetesse aprì quella breccia che permise alla poesia femminile di acquistare una presenza molto più rilevante sulla scena letteraria del nostro Paese. Negli anni Ottanta tutte le autrici che abbiamo menzionato continuavano a scrivere e a pubblicare. A questa nutrita produzione di autrici ormai celebri, che avevano acquisito un consolidato riconoscimento da parte della critica e del mondo accademico, si aggiungevano opere di autrici esordienti destinate ad affermarsi nella prima metà del decennio successivo. La somma di questi fattori rese la poesia femminile di quel decennio un formidabile laboratorio della poesia contemporanea. In questi anni salirono sulla ribalta della scena letteraria, tra le altre, Patrizia Valduga, Rosita Copioli, Giovanna Sicari, Antonella Anedda, oltre alla stessa Biancamaria Frabotta. In parallelo furono attive figure ascrivibili a sottogeneri e settori, come la poesia sperimentale e dialettale, che vanno a completare un quadro complesso e diversificato, del quale è ormai difficile offrire una rappresentazione completa. Possiamo però affermare senza ombra di dubbio che a partire da questo decennio la presenza delle donne nel parnaso della poesia contemporanea non fu più minoritaria né marginale né trascurabile, tanto che la stessa accezione di “poesia femminile” perse quel senso di riscatto e di rivalsa per diventare un semplice dato anagrafico, a cui la critica è chiamata a offrire, volendo, una chiave interpretativa, ma non più una giustificazione.
Ma se vogliamo ripercorrere il lungo cammino che ha portato a questo traguardo, ci troviamo di fronte a diversi ostacoli e problemi. Prima di tutto: cosa fare con le poetesse della prima metà del Novecento? Abbiamo già potuto rilevare la totale assenza dalle antologie della seconda metà del Novecento di figure di primissimo piano del precedente cinquantennio, come le menzionate Ada Negri o Sibilla Aleramo. Tra le due, sicuramente la prima ebbe avuto una maggiore e più lunga familiarità col verso e, nell’epoca in cui visse e scrisse, prima volta in assoluto per una poetessa italiana vivente, le furono tributati onori e riconoscimenti. Infatti nel 1931, alla presenza del re e della regina, in una cerimonia solenne nella sala degli Orazi e Curiazi al Campidoglio, le venne attribuito il premio Mussolini per le discipline letterarie e nel 1940 ricevette, prima e ultima donna, la nomina ad Accademica d’Italia. Morì nel 1945 e dopo la guerra la sua figura, forse perché a torto considerata vicina agli orientamenti ideologici e culturali del regime fascista, venne sostanzialmente cancellata. Già solo per questo motivo le poesie di Ada Negri meritano di essere rilette con la massima attenzione. Ci si accorgerebbe subito del fatto che la sua poesia non fu mai al servizio del regime. Si sa che Negri conobbe Mussolini, probabilmente tramite Margherita Grassini Sarfatti, la quale, com’è noto, fu per un breve periodo amante del giovane Mussolini (che introdusse nei salotti dell’alta borghesia milanese) e, al tempo stesso, amica e protettrice di Ada Negri. Questo contatto risale però agli anni che precedettero lo scoppio della prima guerra mondiale in cui entrambi gravitavano intorno al partito socialista. Vi fu una corrispondenza privata tra i due nella quale la poetessa mostrò tutto il suo appoggio verso Mussolini e le sue scelte politiche anche dopo l’avvento del fascismo, ma la sua creazione letteraria non fu contagiata dalla retorica del regime. Tra l’altro, nel 1922, l’anno della Marcia su Roma, aveva già pubblicato sette raccolte di poesia e due opere in prosa. Ma vale la pena ripercorrere il suo percorso umano e intellettuale dal principio.
Ada Negri nasce a Lodi nel 1870 in una famiglia di umili origini. La madre Vittoria era tessitrice e il padre, che morì l’anno seguente, faceva il vetturino. Per tirare avanti Vittoria si impiegò in un lanificio per tredici ore al giorno, abitando presso la portineria dove lavorava come custode sua madre. Tra il 1873 e il 1876 Ada frequenta l’asilo di carità per l’infanzia e successivamente le scuole elementari. Nel 1884 si iscrive alla scuola normale femminile e nel 1887 ottiene la patente di insegnante elementare e comincia a lavorare, non ancora diciottenne, in un convitto femminile privato a Codogno. Nel 1888, Appena raggiunta la maggiore età è chiamata come supplente a Motta Visconti, in una classe di prima elementare maschile composta da centonove scolari. Nello stesso anno, sul settimanale Fanfulla da Lodi pubblica la sua prima poesia, a cui seguirono negli anni successivi molte altre pubblicazioni su altri periodici. Ma la svolta fu la visita della giornalista Sofia Bisi Albini, che pubblicò sul Corriere della sera del 20 dicembre del 1891 un resoconto dell’incontro. Nel marzo dell’anno seguente l’editore Treves pubblica Fatalità, l’esordio poetico di una autrice che era già diventata un caso letterario. Tanto che nel 1894 Ada ottenne l’abilitazione all’insegnamento delle lettere italiane nelle scuole normali del Regno “per chiara fama”. Si trasferì a Milano, dove insegnò presso la scuola normale superiore femminile Carlo Tenca, entrò nel comitato direttivo della lega femminile e frequentò la casa di Filippo Turati e Anna Kuliscioff (che Ada considerò «sorella ideale»). Legata principalmente alle passioni politiche di questa stagione Tempeste, la seconda silloge di poesia che uscì nel 1895. La protesta sociale rappresenta infatti il tema principale delle liriche di questa raccolta. L’anno successivo però Ada, donna avvenente oltre che ormai celebre, riceve una proposta di matrimonio da parte dell’industriale Giovanni Garlanda, che accettò. Dopo il matrimonio, i coniugi si trasferirono a Valle Mosso, nel biellese, e nel 1898 nacque la primogenita Bianca (la secondogenita Vittoria, nata nel 1900, visse solo poche settimane). L’impegno politico però non venne meno, come testimonia la partecipazione attiva di Ada nella fondazione, nel 1899, dell’Unione femminile nazionale (associazione nata da organizzazioni di mutuo soccorso operaio per promuovere l’emancipazione delle donne attraverso l’acquisizione dei diritti politici, sociali e civili). Tuttavia una nota introspettiva e autobiografica, legata alla maternità, alla tragica scomparsa della secondogenita e, nel 1903, anche del fratello, si fece strada nelle sue poesie. Non a caso la sua terza raccolta, uscita nel 1904, si intitola Maternità. L’agiatezza e lo status “borghese” a cui è ormai approdata non le impedisce di esprimere nelle liriche di questa silloge tutta la sua solidarietà verso donne meno fortunate di lei. Nel 1910 la raccolta Dal profondo segna una ulteriore passaggio verso una malinconica introspezione. In “Un fratello”, la lirica di apertura, si immagina di incontrare un giovane e povero ribelle nel quale rivede se stessa da giovane: («Ti fui compagna per le ignote strade / del mondo e all’ombra dei crocicchi, in una / vita lontana che fu mia (..)/»), ma dal quale lo separa il suo attuale status di signora dell’alta società. L’autrice dichiara di conservare nel suo cuore la scintilla della ribellione («Sono rimasta zingara, nel fondo / del cuore. – Non si mente al proprio sangue – ») ma il suo destino l’ha ormai portata verso una direzione diversa: «Forte e libero tu fra tanti schiavi, / addio. Colei che passa è tua sorella; / ma la folla l’inghiotte – e ognun va solo / col mistero di sé, fino alla morte» – dichiara l’autrice in chiusura. Nel frattempo però i rapporti col marito si vanno deteriorando fino alla rottura: nel 1913, Ada deciderà di seguire la figlia Bianca a Zurigo. Tornerà a Milano nel 1915. A questo periodo risale la frequentazione e l’amicizia con Margherita Grassini Sarfatti, la definitiva rottura con il socialismo turatiano e l’avvicinamento alle posizioni interventiste sostenute dal Popolo d’Italia diretto da Benito Mussolini.
Nel 1917 uscì Le solitarie, prima opera in prosa, una raccolta di ritratti di donne, diverse per ceto, età e condizioni economiche, ma accomunate dalla struggente consapevolezza della solitudine e del rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere la loro vita. Nella breve lettera dedicata a Sarfatti che apre il volume, Ada dichiara di aver voluto raffigurare «umili scorci di vite femminili sole a combattere: malgrado la famiglia, sole: malgrado l’amore, sole: per colpa propria o per colpa degli uomini e del destino, sole». Grazie ai proventi di questo libro, Ada fu in grado di comprarsi una casa dove andrà a vivere con la madre e la figlia.
Due anni dopo, nel 1919, uscì Il libro di Mara, raccolta di 41 testi poetici in versi lunghi che esprimono il tormento e la passione di un amore sconfinato dopo la morte dell’amato (probabile eco di un amore troncato dalla morte dell’uomo a lei caro a causa dell’epidemia di febbre Spagnola), considerato il vertice della sua produzione in versi. «Ada Negri raggiunge (..) una maturità artistica riconosciuta anche da Croce (“è l’opera sua più notevole”): l’irruenza del dettato, il saldo disegno della scrittura, nonostante gli evidenti debiti verso le suggestioni del D’Annunzio notturno, l’emotività esibita senza pudore, il fascino delle atmosfere trasognate, le cadenze monodiche dei ricordi rendono la vicenda molto coinvolgente, soprattutto per il pubblico femminile, a cui ancora l’autrice si rivolge, affascinandolo con la descrizione della sventurata vicenda passionale della protagonista» scrive Pietro Sarzana nel saggio: “La vita risolta in un grido” (premessa a Poesie e prose, Mondadori, Milano 2020). Il seguito della sua produzione in versi e in prosa non fu che la conferma di quanto l’autrice aveva fin qui dimostrato, con l’aggiunta di una nota di misticismo e di malinconica mestizia legata al trascorre degli anni. Fu candidata al premio Nobel nel 1926 e nel 1927.
Sono almeno due le ragioni per cui in una storia della poesia italiana (e a maggior ragione di quella femminile) non si può ignorare Ada Negri. Prima di tutto perché fu una figura di primissimo piano della scena letteraria per quasi mezzo secolo, che lasciò un segno profondo non solo nel mondo delle lettere, ma anche nel costume e, più in generale, nella dinamica socio-culturale della prima metà del Novecento. Ma se volessimo restringere il campo d’indagine alla sua produzione in versi, dobbiamo prima di tutto rendere onore a una autrice che dimostrò una grande padronanza del verso. Anche se dobbiamo riconoscere che non fu una “assoluta innovatrice” (il suo linguaggio e il suo gusto rimasero ancorati alla tradizione dannunziana), alcuni suoi componimenti della fase della maturità, specialmente quelli più brevi (che meno risentono del peso dell’impianto retorico) rappresentano dei piccoli gioielli.
La tragica vicenda umana e intellettuale di Antonia Pozzi, che si consumò proprio in quegli stessi anni, rappresenta l’esatto opposto rispetto a quella di Ada Negri. La prima fu discreta e anonima (non pubblicò nulla in vita) quanto la seconda occupò il centro della scena letteraria nazionale. Dalla prima edizione postuma, Parole. Liriche del 1939, voluta e curata dai genitori a un anno dal suicidio a soli ventisei anni, le edizioni postume delle sue poesie, diari e lettere si sono succedute in modo incessante. La sua figura è stata oggetto di un vero e proprio culto che arriva fino ai giorni nostri (nel 2009 la cineasta Marina Spada le ha dedicato il docufilm Poesia che mi guardi; nel 2014 i registi Sabrina Bonaiti e Marco Ongania hanno realizzato sullo stesso argomento il documentario Il cielo in me. Vita irrimediabile di una poetessa mentre nel 2016 mentre Ferdinando Cito Filomarino ha diretto il film Antonia dedicato alla sua biografia). Il gioco degli opposti potrebbe essere esteso anche all’estrazione sociale, essendo la Pozzi figlia di una contessa e di un importante avvocato milanese. Allo stesso modo la “rimozione” della Negri dal canone novecentesco può essere letto come speculare al culto della Pozzi.
Decisiva fu l’edizione Mondadori (la terza contando quella a cura dei familiari) del 1948 di Parole. Diario di poesia con prefazione di Eugenio Montale, citata anche da Spagnoletti nella sua Antologia della poesia italiana (1909-1949) edita da Guanda nel 1950, che ne sancì l’ingresso nel canone della poesia novecentesca, in cui Spagnoletti scriveva: «Antonia Pozzi merita di uscire dal limbo tra polemico e mondano in cui trova facili consensi certa odierna poesia “controcorrente” – dice Montale nella prefazione a Parole. Infatti tale era sembrata, al suo primo apparire, la gracile lirica della Pozzi: una poesia da “adoperare” contro i cultori dell’ermetismo, una poesia tutta di cuore, di domande fresche e patite». Malgrado gli studiosi in seguito abbiano messo in guarda da un abuso della nozione di “spontaneo” o, peggio ancora, di “autentico” (spesso in contrapposizione alle artificiose alchimie dell’ermetismo) in relazione alla sua poesia, era inevitabile che proprio questi fossero i motivi alla base di un successo presso una vasta cerchia di lettori. Non c’è niente di male, anche perché proprio questa è la prima impressione a una prima lettura.

A questo fenomeno probabilmente non è estranea la figura di un’altra grande “poetessa postuma”, ovvero Emily Dickinson (di cui Einaudi ha appena pubblicato la raccolta Poesie a cura di Silvia Bre ndr), che proprio in quegli anni cominciava a essere nota anche in Italia, funzionale alla “narrazione” dell’inizio di un nuovo ciclo (in questo caso della poesia novecentesca) per mezzo del «sacrificio rituale di una vergine». Per il resto, riguardo ad Antonia Pozzi, rimando il lettore al saggio a lei dedicato nel presente lavoro da Martina Benigni.
Diverso il caso di Sibilla Aleramo, che cominciò a pubblicare le proprie poesie quindici anni dopo il suo fortunato esordio nel campo della prosa col romanzo Una donna, che uscì nel 1906, considerato uno dei primi romanzi femministi italiani, di chiara ispirazione autobiografica e che ottenne quasi subito un successo internazionale (da allora in poi si firmò con lo pseudonimo di Sibilla Aleramo). L’incontro con il verso fu inatteso e improvviso, quasi una rivelazione: «avevo oltrepassato di qualche anno la trentina quando i primi ritmi erano sbocciati in me, un’estate solitaria in Corsica, in un trapasso inavvertito dalla prosa a una libera versificazione. Proprio in quello stesso mese avevo principiato a stendere qualche periodo del mio secondo libro Il passaggio, e anche lì, per la prima volta, il mio mondo intimo si esprimeva con movenze e accenti lirici… che cosa avesse determinato sotterraneamente questa specie di accensione, di conquista, anche questo non potrei dire. Fino ad allora m’ero ritenuta negata alla poesia… forse perché digiuna di studi classici, e perfino di qualsiasi cognizione di metrica», scrive in Gioie d’occasione e altre ancora. Questo episodio si è svolto nel 1910, in un periodo di inquieto vagabondare tra città (Napoli, Firenze, Roma, Milano) e luoghi di villeggiatura (Corsica, Capri, Sorrento) tra varie e numerose relazioni di diversa lunghezza e intensità con poeti, letterati, intellettuali e artisti (tra cui Cena, Damiani, Cardarelli, Campana, Boine, Papini, Quasimodo, Evola e molti altri) ma anche ricchi imprenditori e atleti (non mancò una breve parentesi saffica con la studiosa di lettere classiche Lina Poletti, che diventerà la protagonista del romanzo Il passaggio). In Momenti, la silloge d’esordio del 1921, Sibilla raccoglie i frammenti lirici di otto anni, quaranta componimenti che paiono scritti di getto (nel titolo è già espresso il loro carattere rapsodico), in gran parte brevi, nei quali la dimensione erotica è prevalente e piuttosto esplicita, in cui la scrittrice cerca di catturare l’attimo che fugge. Appaiono quasi come pagine di un diario che si è scritto da sé, a cui l’autrice ha solo prestato la sua mano. Se vogliamo la sua poesia è una espressione verbale di sensazioni e ciò rappresenta, allo stesso tempo, il suo limite (la poca cura della forma e la superficialità) e il suo punto di forza (libera spontaneità, leggerezza). Le sue poesie, almeno fino alla terza raccolta Sì alla terra, del 1934, possono essere considerate una testimonianza delle passioni e delle inquietudini di una donna che fece della propria libertà il valore supremo.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale finalmente si arriva al suffragio universale e per la prima volta nelle elezioni amministrative del 1946 le donne sono chiamate al voto. Nell’Assemblea costituente, nello stesso anno, vengono elette sei donne. Due anni dopo, nel 1948, esce lo straordinario Menzogna e sortilegio di Elsa Morante, probabilmente uno dei migliori romanzi italiani del Novecento.
Nel campo della poesia, il debutto più importante nell’immediato dopoguerra fu quello di Margherita Guidacci, che nel 1946 pubblicò La sabbia e l’angelo. Aveva ventisei anni (era nata a Firenze nel 1921) e si era laureata nel 1943 con una tesi su Ungaretti. La sua poesia però nulla aveva a che fare con Ungaretti. Dichiarò in seguito l’autrice: «Il mio vero cammino cominciò nel 1946 con La sabbia e l’angelo, in cui cercai di dominare, esprimendolo, il dominante senso di morte che aveva gravato su di noi nei terribili anni della guerra». In un suo intervento in una conferenza così descrisse la sua silloge d’esordio: «Erano delle sentenze, delle massime molto brevi, scritte però quasi in una forma di prosa, per lo meno di versetto biblico, il che era completamente contrario alla prassi del tempo che era tutta di derivazione ungarettiana e quindi con le parole sgocciolate in un effetto visivo tutto verticale. Le mie poesie invece erano tutte orizzontali».
Figlia unica, Margherita aveva perso a dieci anni il padre amato, che sui prati di Scarperia, nel Mugello, dove da secoli la famiglia aveva terre e una vecchia casa d’epoca medicea, le aveva insegnato a riconoscere le costellazioni. Chiusa in una timidezza forte come l’orgoglio, ebbe un’infanzia solitaria e pensosa, vivendo con la madre e la nonna. Dedita intensamente allo studio e alle letture, a otto anni aveva già scritto «varie novelle e un paio di commedie». «Nella vita ero entrata, per così dire, a ritroso, senza staccare lo sguardo dal termine che ci attende sulla terra, il disfacimento della carne. E quel termine mi riempiva di tanto terrore da esercitare su di me una specie di sinistro incantesimo», aveva dichiarato in una intervista la poetessa nel 1958 (dal titolo “La morte come vita”, pubblicata su Il Popolo il 5 gennaio 1958)
De Benedetti sarà stato il primo a recensire La sabbia e l’angelo dalle colonne de L’Unità nel gennaio del 1947, colpito dalla forza e dal carattere di quella nuova voce poetica, impossibile a spiegarsi con antecedenti e frequentazioni, quantunque colta e ricchissima di echi (negli anni tra il ‘46 e il ‘47 Margherita già commentava e traduceva John Donne, T.S. Eliot, Emily Dickinson, maestri di cui si nutrì).
A distanza di anni si comprese meglio l’assoluta e dirompente novità che la comparsa di questa silloge rappresentò rispetto alla scena letteraria di quegli anni, che a partire dalla fine degli anni Trenta era dominato dall’ermetismo. Convenzionalmente il saggio di Carlo Bo comparso su Il frontespizio nel 1938, Letteratura come vita viene considerato il suo manifesto. In realtà l’ermetismo non fu un movimento, quanto piuttosto un gusto o una tendenza, attorno al quale vi fu una convergenza tra giovani poeti in quegli anni, verso una poesia pura agganciata ai modelli del simbolismo europeo, Mallarmé e Rilke in primo luogo (tra gli italiani, Il porto sepolto di Ungaretti fu considerato un modello di riferimento). Firenze, dove nel 1927 si era trasferito Eugenio Montale (vi rimase fino al 1948) fu il centro dell’ermetismo. La rivista Campo di Marte, che fu attiva solo un anno (dall’agosto 1938 all’agosto del 1939, quando venne soppressa d’autorità dalla censura fascista), diretta da Alfonso Gatto e Vasco Pratolini, insieme alla più longeva Letteratura diretta da Alessandro Bonsanti, sono considerate le pubblicazioni di punta di questo movimento. Attorno a questi due periodici si raccolsero gli scrittori e i poeti più promettenti della loro generazione, tra cui Tommaso Landolfi (che si era laureato a Firenze nel 1932), Carlo Emilio Gadda, Elio Vittorini e molti altri. I giovani poeti toscani Mario Luzi, Alessandro Parronchi e Piero Bigongiari (tutti e tre nati nel 1914), protagonisti della “generazione dell’ermetismo”, cominciavano a farsi conoscere proprio in quegli anni. Le loro poesie erano accomunate dal culto della parola “assoluta”, che travalica la concreta realtà e la storia, alla ricerca di un senso collocato in un piano superiore. La Guidacci crebbe in questo ambiente, ma seguì una strada completamente diversa. «Uno dei miei capisaldi è stata la chiarezza, perché la conoscenza mira a raggiungere una sua interna chiarezza e a trasmettersi con chiarezza» dichiarò successivamente, una presa di posizione che ricorda la reazione degli acmeisti russi (tra cui Anna Achmatova in primo luogo) nei confronti della poesia simbolista.
Prima della silloge d’esordio, nei Consigli a un giovane poeta (che pubblicò molto dopo) la poetessa provò a chiarire, prima di tutto a se stessa, le ragioni della sua poetica. Il primo di questi cinque punti diceva: «Meglio scrivere un libro importante nel deserto / dirgli sei figlio del deserto, qui sei nato e qui rimani,/ solo le pietre e il vento ti avranno conosciuto,/ che diventare celebri per equivoco». La sabbia e l’angelo, concepito e scritto nelle tragiche circostanze di quegli anni, venne al mondo senza alcuna soggezione o paternità. «Il mio primo libro, in certo senso, era monodico e corale al tempo stesso. Era un libro scritto nell’immediato dopoguerra e che cercava soprattutto una comunione con i morti. Avevo il senso che la poesia fosse fosse la sola cosa che poteva, in qualche modo, mettere ancora in comunicazione i due mondi. Infatti, la poesia d’apertura diceva: “Chi grida sull’alto spartiacque è udito da entrambe le valli. / Perciò la voce dei poeti intendono i viventi e i morti”» – dichiarò in proposito la poetessa.
La sua silloge d’esordio, anche se non fu ignorata dalla critica, si collocò in una posizione marginale rispetto alla tendenza allora dominante nella poesia italiana. Essa tuttavia rappresenta non solo il punto più alto nella creazione letteraria dell’autrice, ma, grazie a l’altissima tensione e la densità dei suoi versi («Non scriverlo sarebbe equivalso per me, letteralmente, a morire» dichiarò in seguito l’autrice), anche uno dei capolavori della poesia novecentesca italiana. La critica ci mise qualche anno ad accorgersene. Il nome della Guidacci apparve nel 1954 per la prima volta in una antologia di poesia contemporanea grazie Piero Chiara e Luciano Erba, i curatori di Quarta generazione. La giovane poesia (1945-54); quattro anni dopo, nel 1968, Salvatore Quasimodo la incluse nella sua antologia Poesia italiana del dopoguerra, e dieci anni dopo, nel 1964, Giacinto Spagnoletti la inserì nella sua antologia Poesia italiana contemporanea (1909-1959), ideale continuazione e aggiornamento di quella summenzionata del 1954 in cui erano incluse Antonia Pozzi e Alda Merini (dieci anni dopo entrerà, oltre a quello della Guidacci, entrerà anche il nome di Sibilla Aleramo).
Ben diverso è il caso di Maria Luisa Spaziani, nata a Torino nel 1924 in seno a una agiata famiglia di imprenditori industriali. Esordì nel 1954 con Le acque del sabato e venne immediatamente notata e inclusa nella citata antologia curata da Piero Chiara e Luciano Erba. La stessa autrice, nella prefazione dell’auto-antologia Poesie (1954-1996) a proposito di questa silloge scrisse: «appartiene, vorrei dire, alla mia preistoria esistenziale, agli anni in cui ero ancora in famiglia a Torino. Dirigevo a diciannove anni una piccola rivista che si chiamava “Il dado” attraverso la quale mi trovavo in corrispondenza o avevo fatto amicizia con alcuni poeti e scrittori ai quali sarei stata vicina tutta la vita, da Mario Luzi a Sandro Penna, da Sinisgalli a Pratolini (..). Aleggiava ancora nell’aria l’ermetismo, e qualche viaggio a Firenze mi permise di sentirne ancora l’odore vivo. Ma in quegli anni (1953) si aprì un inaspettato spiraglio, che si sarebbe poi rivelato un torrente di luce, e cioè ebbi la mia prima borsa di studio a Parigi. L’ultima parte de Le acque del sabato reca notizia di questa fulminante scoperta. All’acquarello così educato ed ermetizzante delle prime poesie si affiancarono i colori di una vita e di un ambiente diverso, scoperte ed emozioni». Da questo racconto possiamo cogliere le ragioni e il carattere della sua poesie, che si colloca sulla scia dell’ermetismo, e più in generale nel rispetto della grande tradizione dell’endecasillabo, misura che la Spaziani si dimostrò in grado di padroneggiare con estrema maestria. Nel gennaio del 1949, durante una conferenza del poeta al teatro Carignano di Torino, conobbe Eugenio Montale, che frequentò in seguito a Milano. Ne nacque un importante sodalizio intellettuale e umano che lasciò un segno importante anche nelle liriche della giovane torinese. Queste furono le premesse di una lunga e feconda produzione poetica di ottimo livello nel solco della migliore tradizione della prima metà del novecento. Quando, nel 1966, Spaziani diede alle stampe Utilità della memoria, sua seconda silloge, sulla scena letteraria italiana si già manifestata l’esigenza di un cambiamento, un rinnovamento invocato a grande voce dalle cosiddette “neo-avanguardie” (“gruppo 63” e dintorni).
Un caso unico e singolare è quello di Amelia Rosselli, la poetessa che, forse per via di un equivoco, sembrò più vicina alle istanze di rinnovamento delle neo-avanguardie. Era nata a Parigi nel 1930 da Marion Catherine Cave e da Carlo, l’antifascista esule che nel 1937 verrà ucciso per ordine di Mussolini insieme al fratello Nello. Poco prima dell’occupazione della Francia da parte della Germania nazista, la famiglia parte per gli Stati Uniti, ma nell’immediato dopoguerra tornerà in Italia, dove però la madre non riesce ad ambientarsi. Intorno agli anni Cinquanta Amelia si stabilisce a Roma, dove tenta di portare a termine, senza successo, studi di filosofia e di musicologia e comincia a scrivere in inglese e francese. Lavora come traduttrice e consulente editoriale. Intorno alla metà degli anni Cinquanta comincia a scrivere anche in italiano. Alcuni suoi componimenti vennero apprezzati da Pier Paolo Pasolini, che li fece pubblicare su Il menabò nel 1963. L’anno successivo vide la luce Variazioni belliche, la sua prima silloge, che sembrò a molti un compendio di quel rinnovamento invocato dal Gruppo 63. Pier Vincenzo Mengaldo, che la inserì, unica presenza femminile, nella sua antologia Poeti italiani del novecento, scrisse: «La formazione plurilingue (..) da lei finalizzata alla ricerca di una sorta di “linguaggio universale”, sta in parte all’origine della lingua vistosamente deviante delle due prime raccolte: che fra lapsus, barbarismi e innovazioni calcolate perverte – o semplicemente ignora – la norma scritta (e orale) italiana a tutti i livelli, grafia e morfologia, sintassi e lessico. Ma l’aggressione disgregatrice perpetrata da questi “versi fatti con furore di distrazione” pochissimo o nulla ha in comune con lo sperimentalismo guidato e tecnologico della neo-avanguardia (..) ed esattamente opposto è l’esito: una scrittura, o una scrittura-parlato, intensamente informale, in cui per la prima volta si realizza quella spinta alla riduzione assoluta della lingua della poesia a lingua del privato, che si ritrova quindi in non pochi poeti post-sessantotteschi».
Senza dubbio la poesia della Rosselli fu audace e innovativa; aprì nuovi orizzonti linguistici al di là dell’italiano letterario novecentesco fino a quel momento praticato, da D’Annunzio a Montale passando per i poeti ermetici, e per questo venne da molti a torto assimilata a una sorta di nostrano poeta “beat”, ma fu e rimase un fenomeno circoscritto negli ambienti degli accademici e di pochi intellettuali, per un semplice motivo: le sue poesie non riescono (per una precisa scelta dell’autrice) a generare alcuna empatia nel lettore comune (questa potrebbe essere l’unica spiegazione della sua esclusione dall’antologia Poesia italiana del Novecento edita nel 1980 dalla Garzanti, che contava ben sette presenze femminili).
Ma il compito di aprire la nuova stagione post-68 spetta ancora una volta a Margherita Guidacci e alla sua Neurosuite (1968-1969), edito da Neri Pozza nel 1970, legato a una permanenza in una clinica psichiatrica a seguito di un esaurimento, libro potente, coerente, capace di coinvolgere e travolgere il lettore. Scrive Maura Del Serra (Introduzione a Le poesie, la raccolta quasi integrale della sua produzione in versi uscita nel 1999) che in Neurosuite lo shock e l’esperienza della clinica neurologica «estende a categoria corale la frantumazione solipsistica innescata dall’angoscia depressiva, in una tragica solidarietà con-senziente con gli altri malati, vittime della tetra, carceraria “città murata” dantesca e kafkiana” Lì Guidacci compiva il suo “eloquente viaggio al termine della notte”». Per comprendere la portata di questa pubblicazione dobbiamo immaginarci una poetessa che grazie a Quasimodo e Spagnoletti dalla seconda metà degli anni Cinquanta era entrata nel canone della poesia contemporanea, dopo La sabbia e l’angelo aveva pubblicato altre tre raccolte, riproposte in una antologia uscita con Rizzoli nel 1965. Poco dopo ci fu il crollo nervoso e il ricovero. Neurosuite è un racconto della discesa negli inferi dell’ospedale psichiatrico (sono numerosi i riferimenti all’inferno dantesco), con riferimenti concreti alla condizione dei malati di mente, come nell’eloquente Incoronazione – elettrochoc: «Questa è la tua corona con le crudeli gemme / ad ogni altro invisibili / i cui lampi improvvisi ti traversano l’anima: / smeraldi rubini topazi / diamanti che ti accecano / in una danza elettrica, / razzi sfrenati nell’interna tenebra. // Dopo sei come il rovo /spogliato della breve fioritura / e chiuso nei suoi neri aguzzi spini./ Da che rivoluzione / emergi? Quale folla / hai dovuto affrontare? Che nemico / guidava la battaglia? / Forse hai cambiato il trono/ con un patibolo, / forse ti hanno promesso ancora gloria / di là da un lungo esilio. / Nulla sai, nulla puoi ricordare / mentre premi smarrita / le mali sulle tempie: / vuoto dentro e la traccia degli elettrodi». Le poesie di questa raccolta furono scritte poco dopo il ricovero, in pochi mesi tra la fine del ‘68 e l’inizio del ‘69. A proposito scrive l’autrice: «Anche Neurosuite aveva una sua coralità: c’era il senso che il “male” non era soltanto mio, e non era neppure degli altri malati, ma il “male” del mondo che si rifletteva in ciascuno di noi. Quindi non si trattava soltanto del singolo, ma si trattava di tutto il mondo che era malato: doveva guarire anche il mondo se si voleva che guarissero i singoli».
Con questa pubblicazione la poetessa fiorentina tocca per la seconda volta un vertice assoluto della sua creazione poetica; indirettamente, in senso metaforico, i versi di questa raccolta possono essere considerati lo specchio di quel doloroso travaglio politico, culturale e antropologico che stava attraversando la società italiana partire dal ‘68 (data che coincide col suo ricovero nell’ospedale psichiatrico).
Con la cosiddetta “seconda ondata femminista”, parte della “stagione dei movimenti”, partendo dal dato ormai acquisito della parità dei diritti, si passò a mettere in discussione l’istituto della famiglia: per la prima volta furono passate al vaglio le relazioni tra i suoi componenti non solo dal punto di vista giuridico, ma anche da quello umano. Vennero così alla luce tutti quei “disastri umani” fino a quel momento tenuti nascosti tra le mura della “famiglia borghese”.
Il tessuto costituito dall’associazionismo, dalle case editrici e, a partire dal 1976, dalle radio libere, costituì la premessa per la diffusione di una nuova cultura giovanile. Il femminismo, per la prima volta in Italia, divenne in questi anni un movimento di massa. A questo clima è legata la menzionata antologia Donne in poesia di Biancamaria Frabotta, grazie alla quale la generazione delle poetesse nate negli anni Venti (Guidacci e Spaziani) consegnava il testimone a quella degli anni Trenta, vagamente e variamente legata alle neo-avanguardie (Rosselli, ma anche Piera Oppezzo, Rossana Ombres, Giulia Niccolai e Dacia Maraini). C’era anche l’alba della generazione degli anni Quaranta (Patrizia Cavalli, nata nel 1947, che allora aveva ventuno anni). Questa “massa critica” fu in grado di rompere il silenzio e far uscire la poesia delle donne da quella condizione di marginalità a cui era stata fino a quel momento relegata. Ciò permise anche l’emergere di alcune voci femminili al di fuori degli schemi generazionali e delle correnti letterarie, come la geniale outsider Daria Menicanti, che era stata compagna di studi di Antonia Pozzi all’università di Milano. Nata a Piacenza nel 1914, dopo un lungo apprendistato come traduttrice dall’inglese, pubblicò Città come, la sua prima raccolta, cinquanta anni dopo, nel 1964, per i tipi della Mondadori, che fu subito notata dalla critica per la sua abilità nel dissimulare nei suoi brevi componimenti dal tono apparentemente dimesso una conoscenza profonda della poesia basata su una solida formazione umanistica, che andava dai lirici greci fino ai poeti contemporanei (Frabotta, nella menzionata antologia, la mise in relazione a Umberto Saba e Sandro Penna). Sergio Solmi, nel presentare Poesie per un passante, la sua terza raccolta che uscì nel 1978, scrisse che la poesia di Menicanti appartiene al filone «della poesia d’ogni tempo, dai primi lirici greci fino a Leopardi, nei suoi poli fondamentali di amore-morte».
Nel 2022 ci hanno lasciato Patrizia Cavalli e Biancamaria Frabotta. Una enorme perdita per la poesia italiana, nella quale però la presenza femminile è diventata ormai parte integrante, come dimostra il recente successo di Mariangela Gualtieri anche nel “mainstream” (dal palco di Sanremo nel 2022 Jovanotti ha letto una sua poesia).

 

Lorenzo Pompeo è critico letterario, scrittore e traduttore

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