Dal porto di Odessa investito dalla guerra russo-ucraina a quelli dell'antichità, il viaggio dei cereali narra la storia, tra conquiste e crisi, dell'umanità. Ne parla il saggio di Gianfranco Nappi uscito per Infinitimondi. Una ricerca sulle coltivazioni del passato per comprendere le contraddizioni del presente, come gli effetti dell'agricoltura intensiva

Questi Frammenti di storia delle civiltà del grano e del pane nel Mediterraneo di Gianfranco Nappi, che raccolgono con coerenza e pazienza i frutti di appassionate ricerche condotte nel corso di molti anni, costituiscono una espressione insolita nella storiografia italiana. Mi riferisco, ovviamente, alla storiografia modernistica, che insieme alla medievistica e all’antichistica rappresentano l’espressione più alta e prestigiosa della nostra ricerca storica. Ogni riferimento o confronto con la storiografia italiana dell’età contemporanea apparirebbe stonato, essendo diventata quest’ultima, a partire dal nuovo millennio, una disciplina monocorde, quasi interamente interessata (salvo poche eccezioni) ai temi della vita politica nazionale. E perciò inevitabilmente specchio della perifericità politica e culturale del nostro Paese nell’età contemporanea. Dovrebbe essere noto che salvo le pagine del Risorgimento nazionale a metà ’800 e gli anni della fondazione della Repubblica, la ricostruzione delle vicende politiche italiane costituiscono una storia minore del nostro tempo.

Perché è insolito questo libro di Nappi? Innanzi tutto perché ha come soggetto principale delle vicende narrate non un leader di partito, né un uomo di stato, nessun caso politico o storia di comunità, città o Paese. Il protagonista principale è il grano, questa pianta fondamentale che è stata per millenni alla base dell’alimentazione umana e della sua stessa possibilità di sopravvivenza. Una scelta tutta braudeliana, sulla scia della migliore storiografia delle Annales francesi, che nella seconda metà del ’900 hanno fatto della disciplina storica una delle più alte espressioni conoscitive e culturali della cultura mondiale. Proprio Braudel, molto citato in questo testo, aveva compiuto una rottura ardita con il suo libro maggiore, rendendo sin nel titolo soggetto della sua vasta ricostruzione plurisecolare, il mare, il Mediterraneo. E significativamente, per rimarcare il conservatorismo culturale italiano, il nostro più avanzato editore, Einaudi, che ha tradotto la Mediterranée e le monde méditerranée à l’époque de Philippe II, non ha avuto il coraggio di conservare il titolo originale, ma l’ha trasformato, com’è noto, in Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II. Della geografia non si può fare storia. Per la cultura dominante italiana la vicenda umana sembra svolgersi fuori da ogni determinazione territoriale e spaziale.

La seconda novità del lavoro di Nappi è che esso travalica le delimitazioni temporali che separano scolasticamente la disciplina storica: età medievale, moderna, contemporanea, ecc. L’autore infatti avvia il suo racconto dai nostri giorni, accennando alla vicenda dello sblocco delle navi cariche di cereali, che dal porto di Odessa, investito dalla guerra Ucraina-Russia, sono potute partire per i porti dell’Africa e altri Paesi, per poi spaziare all’indietro, attraversando le epoche, toccando anche il mondo antico e i primordi della stessa agricoltura. E questo per la semplice ragione che quella del grano, come dice l’autore «è una storia antica».

Ma l’autore dichiara in maniera quasi perentoria le ragioni fondative del suo lavoro di storico, l’aver messo al centro della sua narrazione questo cereale: «Il grano ha rappresentato il principale prodotto trasportato in lungo e in largo nel Mediterraneo. Più del pesce che si conserva solo essiccato o sotto sale e meno raccontato del più ricco commercio delle spezie, esso tuttavia ha rappresentato la base su cui tutti gli altri commerci hanno trovato solidità consentendo alle più importanti città mediterranee, dell’antichità come del medioevo, di crescere e prosperare. E al tempo stesso vedendo le stesse città messe in un angolo se gli approvvigionamenti di grano necessari si interrompevano, vuoi per carestie che per guerre».

Ma l’aver scelto questa pianta alle origini della civilizzazione umana, per lo meno di gran parte dell’Europa e del Medio Oriente – perché altre regioni del mondo si sono sviluppate grazie alla coltivazione di altri cereali, il mais in America Latina e il riso nei grandi paesi dell’Asia – spinge l’autore a fare una storia tutta fondata sulla geografia. Geografia dei porti e geografia dei commerci internazionali via mare. Così il racconto di Nappi si sofferma su Pozzuoli, Odessa, Alessandria d’Egitto, Amalfi, Rodi, ecc. E in questo girovagare per il Mediterraneo, ricostruendo di scorcio le fortune e il declino di grandi empori, stati, Repubbliche e snodi dei traffici internazionali, l’autore ricostruisce un aspetto rilevantissimo della storia delle epoche precapitalistiche. È poco noto, infatti, che l’economia dominante dei secoli passati, quella commerciale, è stata per necessità una economia internazionale, assai prima di essere nazionale. L’economia nazionale, di fatto nasce e diventa protagonista, quando, grazie alle ferrovie e a sistemi stradali diffusi, i vari Paesi costruiscono il mercato interno. In passato i territori avevano una infrastrutturazione viaria molto ridotta. Fino a quasi tutto il XIX secolo, tanto per fare un esempio, era più facile e meno costoso trasportare derrate da Napoli a Marsiglia, dunque via mare, che non da quella città a Matera o all’Aquila. Lo chiarisce bene l’autore proprio a proposito del grano: «E allora, la via privilegiata è il mare e il Mediterraneo è solcato nei secoli da intere flotte che lo trasportano. E con il mare, l’acqua dei fiumi: praticamente tutti i mercati utilizzati dal commercio dei grani sono situati sulle rive del mare».

Perciò i porti in questa storia di Nappi, che è anche una storia del cibo, come ricorda anche il sottotitolo, costituiscono un capitolo di storia importante non solo nella vicenda del commercio internazionale, ma anche del secolare impegno sostenuto dagli stati per fronteggiare le carestie. Perché queste emergenze congiunturali che hanno colpito per millenni le società di antico regime, provocate in genere da cattive annate agricole ripetute negli anni, potevano essere limitate o anche scongiurate a seconda dell’andamento del commercio internazionale del grano e dei cereali minori. Infatti la scarsità dei raccolti raramente colpiva in maniera totalitaria tutte le regioni del Mediterraneo, dell’Europa continentale e del Medio Oriente. Spesso annate di prodotti scarsi in alcuni Paesi si accompagnavano a raccolti abbondanti in altri, sicché il surplus poteva essere esportato.

Specie nel corso dell’età moderna le carestie, in genere prodotte dal ripetuto crollo delle produzioni agricole, sono diventate disastrose per il concorso di altre ragioni. Ad esempio a causa di rapporti sociali iniqui, come nel caso dell’Irlanda, devastata dalla fame alla fine degli anni ’40 dell’Ottocento. Qui gli agricoltori, che avevano assistito per più anni al fallimento del raccolto delle patate, (alimento fondamentale se non unico della popolazione) decimato dal fungo della peronospera, non poterono far ricorso, per fronteggiare la fame, ad altri prodotti della terra che pur coltivavano. Questi erano destinati all’esportazione in Gran Bretagna, mentre gli introiti delle vendite i contadini irlandesi dovevano impiegarli per pagare il fitto dei terreni che coltivavano i cui proprietari erano inglesi. In altri casi era l’isolamento territoriale delle popolazioni che trasformava la scarsità congiunturale di cibo in carestie mortali. I paesi di montagna, i meno forniti di vie agevoli di accesso, specie nel corso dei lunghi inverni, restavano privi di contatti commerciali e la popolazione moriva letteralmente di fame. Per questo i trasporti delle derrate alimentari, i porti, le navi, la sicurezza dei percorsi marittimi hanno giocato un ruolo fondamentale nella storia dell’alimentazione umana in una larga parte del globo. Così che a ragione Nappi dedica particolare attenzione a questi aspetti della distribuzione internazionale.

Prendendo spunto da Braudel, egli ricorda l’ingresso nel Mediterraneo di un altro cereale, proveniente dal Nuovo Mondo, il mais, destinato a inaugurare una nuova pagina nella storia dell’alimentazione in Occidente. Benché sarebbe giusto ricordare, che già tra il VII e il XII secolo un altro cereale ha fatto ingresso nel Mediterraneo e nell’Europa meridionale: il riso, nato nelle pianure umide dell’Asia e trasportato dagli Arabi in Andalusia e in Sicilia. Rammentando che tuttavia questo cereale ha avuto una diffusione geograficamente limitata, rispetto al mais, e conosciuto comunque una fortuna tardiva solo nelle terre paludose della pianura padana. Ma il mais, insieme alle patate, provenienti dalle piane del Messico, dalle Ande peruviane e dalle valli cilene, ha avuto un ruolo decisivo nel limitare la frequenza delle carestie e nell’assicurare un’alimentazione meno soggette alle alee delle avversità climatiche, benché insufficiente, sotto il profilo nutrizionale. La straordinaria fortuna del mais, o granturco si deve alla straordinaria produttività della pianta. Solo rammentando le basse rese del grano nel corso dell’età moderna, ben documentate dagli storici, si comprende il grande balzo che questa nuova pianta “americana” ha fatto compiere alle nostra colture cerealicole.

L’autore, peraltro, ricorda come nell’alto Medioevo siano addirittura prevalsi i cereali minori, che hanno sostituito il frumento non più abbondante come ai tempi dell’impero romano. Nei secoli che precedono la rivoluzione agricola inglese, come ha documentato Bernard Slicher Van Bath nella sua poderosa Storia agraria dell’Europa occidentale, il rapporto medio tra la semente seminata e quella raccolta era in genere di 1 a 5, più spesso di 1 a 4, raramente 1 a 6 o a 7. Provate a immaginare come questo rapporto si moltiplica con il granturco. Da un chicco può nascere un pianta con due tre pannocchie, ognuna delle quali può avere un’ottantina di chicchi. Questa superiorità produttiva del mais rispetto al grano ha davvero cambiato il tenore dell’alimentazione delle nostre campagne e fornito un’arma in più contro la fame alle popolazioni contadine di una vasta parte del mondo. Ma Nappi ci informa su un altro vantaggio offerto da questo cereale, fornito dalla natura in un continente lontano, e migliorato dal sapere contadino di popoli rimastici ignoti per millenni. È quanto ha osservato l’abate Ferdinando Galiani nei suoi Dialoghi sul commercio dei grani «la coltura del granoturco ha preso piede nei paesi meridionali perché con esso si risparmia la macinatura e la lavorazione del pane. Ci si accontenta di tritarlo e poi di cuocerlo nell’acqua e di farne la polenta; per questo solo risparmio in realtà considerevole dobbiamo a questa pianta americana la diminuzione delle carestie».

Non si comprende in pieno tale affermazione se non si rammenta, come fa l’autore che «macinare il grano raccolto ha sempre rappresentato un problema serio che assorbiva molto impegno e lavoro». E il lettore potrà soddisfare la propria curiosità per pagine e pagine scoprendo i modi diversi con cui l’ingegno umano si è misurato con questa per noi quasi incomprensibile difficoltà: trasformare i duri granelli dei cereali in farina per farne pane e in genere alimento cotto ed edibile. Un passaggio di civiltà, che l’autore fa descrivere così a Pedrag Matvejevic: «è stato lungo il cammino dal chicco crudo a quello cotto, dalla farina alla focaccia. L’uomo che preparò il pane era diverso dai suoi antenati. Si era affacciato alla soglia della storia». Con naturale coerenza Gianfranco Nappi dalle tecniche di macinazione, che evolvono dalla triturazione manuale con la pietra ai mulini, approda infatti al pane, questa pietra miliare dell’alimentazione umana in area mediterranea. E lo fa privilegiando Roma, mostrando il tardivo approdo al tipo di alimento più vicino al nostro, cioé al pane di grano, dopo che per secoli, nella nostra Penisola avevano dominato l’orzo, il farro, il miglio, il panico e la spelta.

Il lettore troverà un’accurata ricognizione che l’autore compie sull’alimentazione dei ricchi, perfino dell’imperatore, così come su quella dei lavoratori, degli schiavi, ecc. La storia del grano e del pane si dilata in una più generale storia dell’alimentazione nel mondo romano.
Ma è solo un’apparente divagazione, perché nel capitolo successivo, Il pane di Predrag, – lo scrittore slavo che ha studiato a fondo il tema – l’autore offre un rassegna davvero insolita per ricchezza documentaria delle forme e qualità del pane nelle diverse culture, popoli e realtà sociali: il pane degli ebrei, dei cristiani, degli arabi, dei fenici, dei naviganti, il pane greco, ecc. Anche in questo caso il seguito della narrazione non si ferma al pane e diventa una più generale storia dell’alimentazione. Una panoramica ricca di curiosità, che ovviamente comprende tecniche culinarie e di trasformazione dei prodotti agricoli e si intreccia ai simboli religiosi, alle culture, alle tradizioni dei diversi popoli delle varie regioni mediterranee.

Il saggio di Gianfranco Nappi, mantiene sino in fondo la sua coerenza narrativa, concludendo le sue storie del grano, del pane, delle tecniche, dei porti e delle navigazioni, con un ritorno al punto di partenza, al nostro presente. Un presente nel quale l’agricoltura, l’attività produttiva che nel corso di 10 mila anni ha garantito la sopravvivenza e la crescita demografica del genere umano, è diventata uno dei problemi ambientali più gravi del nostro tempo. In tale ambito il capitalismo mostra nitidamente, senza possibilità di smentita, il suo esaurimento storico di produttore di ricchezza, la sua conclamata, distruttiva insostenibilità. Combinata con l’allevamento intensivo l’agricoltura contribuisce intorno al 40% al riscaldamento climatico, consuma il 70% delle risorse idriche, alimenta tra 60 e 80 miliardi di animali su tutto il pianeta, che si sommano agli 8 miliardi degli umani. Essa, cosa ignota ai più, è l’unica attività economica che distrugge le basi stessa della propria produttività: desertifica ogni anno, a scala mondiale, tra i 10 e 12 milioni di suolo fertile. Ma insostenibile l’agricoltura capitalistica è anche sotto il profilo sociale. Essa ha fatto rinascere la schiavitù e la semi- schiavitù nelle campagne. La sua feroce logica estrattiva e accumulativa fa ritornare indietro le lancette della storia.
Anche per tale ragione questi Frammenti di storia, che ci offrono un suggestivo affresco della civiltà agricola mediterranea, rivestono un importante valore culturale, ci rammentano che cosa è stata l’agricoltura per gran numero di secoli e che cosa può continuare a essere.

Questo testo di Piero Bevilacqua è la prefazione al libro di Gianfranco Nappi Frammenti di storia delle civiltà del grano e del pane nel Mediterraneo pubblicato nel febbraio 2023 da InfinitiMondi, associazione e rivista bimestrale di pensieri di libertà