Autore del bestseller "L'ordine del tempo", il noto fisico teorico ha da poco pubblicato un saggio in cui ipotizza l'esistenza di buchi bianchi. Due ricercatrici in fisica e preziose collaboratrici di Left lo hanno intervistato

Studioso e saggista di fama internazionale il fisico teorico Carlo Rovelli è da poco tornato in libreria con  Buchi bianchi. Dentro l’orizzonte, edito da Adelphi Edizioni. Diversamente dalla maggior parte dei libri di divulgazione scientifica, in questo libro ci racconta e rende spettatori di una ricerca in corso, del processo di scoperta stessa. Per saperne di più gli abbiamo rivolto qualche domanda.

Carlo Rovelli, da ricercatrici sappiamo bene che, più che trovare le risposte, è importante porsi le domande giuste. Vorremmo quindi chiederle: da quale domanda nasce la ricerca che racconta nel suo libro?

Nasce dal desiderio di cercare, nell’universo, qualche indizio che possa confermare il lavoro teorico che ho svolto nel corso della mia vita. Ho cercato per tutta la vita di comprendere le proprietà quantistiche dello spazio e del tempo. L’universo si è mostrato essere pieno di buchi neri, negli ultimi anni. I buchi neri, il modo in cui evolvono, può essere la chiave per accedere con le nostre osservazioni alle proprietà quantistiche dello spazio tempo.

In cosa i buchi bianchi si differenziano dai buchi neri? Quali le “tracce” che lasciano nell’universo? È possibile immaginare tra qualche anno una loro “fotografia”?

Un buco nero è come uno stretto pozzo in cui possono cadere molte cose. Un buco bianco è come una piccola sorgente da cui possono uscire molte cose. Le tracce che lasciano nell’universo potrebbero essere molte, ma non le conosciamo ancora bene: potrebbero emettere radiazione, o potrebbero addirittura essere una parte di quella misteriosa sostanza che riempie l’universo e ci confonde, e che ora chiamiamo “materia oscura”. Una loro foto… chi lo sa? Se mi avesse chiesto dieci anni fa se una foto di un buco nero fosse possibile, avrei risposto “no, non credo proprio”… e invece… ora le abbiamo.

Quali nuove altre domande apre questa ricerca? Nel libro accenna molto brevemente al Big Bang e alla materia oscura, ci può spiegare meglio?

I buchi bianchi potrebbero originare dalla trasformazione di buchi neri generati nell’universo primordiale, poco dopo il Big Bang. O addirittura potrebbero essere stati generati prima del Big Bang, e avere attraversato il “grande rimbalzo” che potrebbe avere dato origine al Big Bang. Sappiamo ancora poco di quella fase dell’universo, e i buchi bianchi potrebbero aver rappresentato un ingrediente importante di quanto accadde allora.

Nel libro scrive, con grande onestà, che la sua teoria sui buchi bianchi, per quanto bella, potrebbe rivelarsi in disaccordo con eventuali future evidenze sperimentali. Come la vivrebbe? Come si supera il dubbio paralizzante di essere in errore pur accettando l’incertezza che ogni teoria porta con sé?

La scienza cresce “provando e riprovando”. Se l’idea che i buchi bianchi esistono fosse sbagliata, comunque non sarebbe stato inutile studiarla e comprendere perché non esistono. In fondo sono delle soluzioni della teoria di Einstein, previsti dalla teoria, quindi se non esistono dobbiamo capire perché. Se poi non esistono… “la vivrei” benissimo comunque! Se davvero ogni dubbio o incertezza dovesse essere “paralizzante”, non usciremmo mai di casa, non crederemmo a nulla e nessuno, e vivremmo paralizzati dalla paura! È chi pensa di avere certezze che si illude…

Albrecht Dürer, Melencolia_I

In un passaggio del libro molto suggestivo, in cui spiega cosa succede sull’orizzonte di un buco nero, ci mostra la bellissima incisione di Dürer, “Melancolia I”. Nell’interpretazione di Finkelstein la sorgente della nostra malinconia è «l’impossibilità di accedere all’assoluto», la caduta quindi in un ineluttabile relativismo in cui non può esistere alcuna “verità” condivisa. La relatività speciale di Einstein deriva dall’idea della costanza della velocità della luce in ogni sistema di riferimento e la relatività generale deriva in fondo dal principio di equivalenza tra massa inerziale e gravitazionale. Quindi delle realtà universali (l’assoluto di Finkelstein?) da cui si derivano realtà “relative”, che dipendono dalla prospettiva dell’osservatore. Non pensa allora che Einstein (e non solo lui) ci suggerisca in qualche modo di superare il principio di non contraddizione per mettere insieme universalismo e relativismo, uguaglianza e diversità?

Penso che non ci sia contraddizione fra universalismo e relativismo, uguaglianza e diversità. La vita è fatta di equilibri, non di assiomi intangibili. Non esiste solo l’Assoluto da una parte e il relativismo completo dall’altra. Questi sono due estremi sciocchi. In mezzo, fra i due, c’è la realtà della nostra vita, dove abbiamo convinzioni senza per questo rinunciare al dubbio. Riteniamo la nostra conoscenza sia affidabile, anche se sappiamo che è incompleta, e probabilmente contiene errori, che però possiamo correggere. L’ansia di assoluto è solo paura di accettare la vita. Il relativismo completo è solo non rendersi conto che abbiamo conoscenza affidabile e valori morali ed estetici che fanno parte di noi. Il fatto che negoziamo tutto ciò in continuazione non toglie loro valore.

Un altro tema molto affascinante, di cui ha scritto estesamente anche in un precedente volume (L’ordine del tempo), è lo scorrere del tempo. Nel libro spiega bene come la freccia del tempo appaia a livello macroscopico a partire da un disequilibrio iniziale e si manifesta con un aumento di entropia. Una volta appianato il disequilibrio e raggiunto l’equilibrio, il tempo non ha più una direzione privilegiata. Nella vita degli esseri viventi questo “equilibrio finale” equivale alla morte. Possiamo però dire che tra gli esseri viventi, l’uomo è l’unica realtà che si oppone a questo inesorabile aumento dell’entropia attraverso la creatività? Per esempio, quando inventa l’ombrello, le scarpe, i vestiti, o la medicina…

Non credo che in questo senso ci sia nulla di unico in quello che fa l’uomo (e neanche in quello che fa la donna). Facciamo quello che fanno gli altri esseri viventi: non ci opponiamo alla crescita dell’entropia, anzi, la nostra vita stessa, compresi gli ombrelli, sono forme in cui l’entropia cresce. La crescita dell’entropia non è ciò che ci fa morire. È ciò che ci fa vivere. Se trovassimo un modo per non invecchiare, aumenteremo la crescita dell’entropia, non la diminuiremo. La “bassa entropia” cioè l’energia libera che alimenta la vita, ci piove addosso abbondantissima e per noi inesauribile dal sole. Non la stiamo combattendo… Stiamo aiutandola a dissiparsi… Noi siamo forme del suo dissiparsi…

 Sappiamo bene che la creatività umana si manifesta non solo in invenzioni “utili” (le scarpe, l’ombrello, la medicina), ma anche e soprattutto in invenzioni “inutili” alla nostra sopravvivenza materiale: dall’arte, alla musica, alla stessa fisica di base. Questa capacità di immaginare, che ci permette di pensarci a cavallo di un fotone o sull’orlo di un buco nero, e che ci permette di “vedere sempre un po’ più in là” è per lo psichiatra Massimo Fagioli, penna storica del settimanale Left, la specificità stessa della specie umana, una capacità di intuire ciò che non si vede senza averlo percepito prima. Forse anche Newton la riteneva una capacità connaturata e non “imparata” quando scriveva di essere stato come «un bambino che gioca sulla spiaggia, e di essermi divertito a trovare ogni tanto un sasso o una conchiglia più bella del solito, mentre l’oceano della verità giaceva insondato davanti a me». Lei come la vede?

È difficile dire cosa caratterizzi esattamente la nostra specie. Non lo so, credo che gli antropologi ne discutano. Ogni specie ha tante caratteristiche che la differenziano dalle altre. La nostra è certo curiosa, flessibile, loquace, capace .di pensare al futuro, vedere lontano, organizzare tutto questo in informazione collettiva, che cresce con apporti di molti individui e si accumula nella cultura…. Direi che non siamo i soli a fare cose che non hanno una ovvia utilità immediata… anche perché cosa sia utile, cosa non lo sia dipende da come si guardano le cose… Forse direi che non abbiamo bisogno di volerci pensare diversi dal resto della biosfera, per stare bene nella nostra pelle e fare quello che facciamo, con passione, con gioia e con dolori, come, almeno, tutti gli altri mammiferi.