Meloni fa solo demagogia: il suo governo si accanisce sui più poveri, non pensa ai giovani e non aiuta le donne dice la senatrice Pd ed ex segretaria generale Cgil. Basta guardare quali sono i progetti del Pnrr a cui l'esecutivo segnala di voler rinunciare: Asili nido e Case di comunità

Senatrice Pd e segretaria generale Cgil dal 2010 al 2019, Susanna Camusso da sempre si occupa di diritti delle donne. In vista del decreto Lavoro del governo Meloni  – che ha già sollevato molte critiche – le abbiamo chiesto di aiutarci a leggere le politiche del governo, proprio a partire da questo tema.

Susanna Camusso, cominciamo da donne e lavoro. La presidente Meloni dice che deve essere valorizzato il lavoro delle donne che, dal suo punto di vista, devono fare più figli e senza essere aiutate dal welfare e da persone e lavoratori migranti provenienti da altri Paesi. Una sua valutazione? Cosa si dovrebbe fare davvero per sostenere davvero l’occupazione femminile?
Direi che la presidente del Consiglio ha reso plastico il suo pensiero sulla questione: “Io ci sono riuscita, se voi, donne, non ce la fate è per colpa e incapacità”. Nessuna disponibilità al cambiamento, a rovesciare un’asimmetria di potere e diritti che condiziona il mercato del lavoro e la presenza femminile. Quali sono i progetti del Pnrr a cui questo governo da segno di voler rinunciare? Asili nido e Case di comunità, proprio quelli più fondamentali per le donne. Infatti si tratta di misure che intervengono sugli aspetti che condizionano più di tutto il lavoro femminile: cura dei figli e degli anziani. Per sostenere l’occupazione femminile è invece necessario promuovere la condivisione del lavoro di cura: congedi parentali, ma soprattutto paternità paritaria per durata ed obbligatoria, e poi contrasto del part-time involontario, salario minimo per intervenire sul lavoro povero che troppo spesso è femminile, orari flessibili per uomini e donne. Serve una rivoluzione culturale, che riconosca che la cura è una responsabilità che va assunta e condivisa e non può essere liquidata come una variabile secondaria. Se la presidente del Consiglio ascoltasse le donne che lavorano saprebbe anche che la loro principale richiesta è di riconoscimento, che vuol dire retribuzioni uguali certo, ma anche valorizzazione professionale, condivisione dei ruoli e delle responsabilità.

Quali politiche per l’occupazione giovanile che soffre di precariato ma anche di una narrazione politica denigrante che di volta in volta bolla i ragazzi come “choosy” come disse Fornero o  sdraiati sul divano come li descrive Meloni?
Si sono spese molte risorse per incentivare attraverso fiscalizzazione e decontribuzione il lavoro per i giovani e le donne, con ben scarsi risultati, anzi addirittura con un effetto di finanziamento della precarietà. Sono i frutti avvelenati della logica dei lavoretti, della svalutazione del lavoro e dei salari. Anche in questo caso servono altre politiche: in primo luogo il salario minimo, quindi retribuzioni dignitose, in secondo luogo ripensare la formazione professionale che non deve ridursi a via di fuga per far assolvere l’obbligo scolastico (che va invece portato ai 18 anni) ma un vero percorso formativo che dia anche la possibilità di seguire inclinazioni ed anche desideri, e contemporaneamente occorre aumentare i laureati e riconoscere il valore dell’istruzione, in Italia drammaticamente negato. È necessario ricostruire l’ascensore sociale sia per ceto sia per generazione, abolendo tirocini, stage e tutte le forme di lavoro non retribuito. I giovani sono le prime vittime della precarietà che oltre a causarne il disagio è alla base del progressivo e costante indebolimento del nostro sistema produttivo. Senza contare che, se davvero il governo è così preoccupato dal tema della natalità, sono ormai anni che è dimostrato che proprio la precarietà è uno dei fattori che la disincentivano.

Per il Primo maggio il governo Meloni annuncia provvedimenti sul lavoro. Cosa sappiamo dei contenuti? Quale politiche del lavoro andrebbero fatte?
Sono circolate più bozze, anche diverse – indizio di un conflitto interno al governo – ma da tutte traspare una gara a chi punisce di più i poveri. Continuano ad ignorare il dato drammatico della povertà minorile e invece si scatenano sulla presunta occupabilità per togliere il reddito di cittadinanza. Poi è chiaro che intendono ampliare il ricorso ai contratti a termine, forse perché non capiscono che è il lavoro stabile a favorire qualità e crescita del sistema. Non vedono né l’esperienza della Spagna, né quella della Germania. Gli annunci però si concentreranno solo su un taglietto ulteriore del cuneo per “fare bella figura”, facendo finta di non capire che la vera emergenza sono i salari, tutti, anche quelli pubblici.

Ancora una volta i sindacati vengono chiamati alla vigilia del varo di un provvedimento che riguarda il lavoro per essere informati non consultati. Continua la politica di disintermediazione. Con quali danni?
Purtroppo non possiamo dimenticarci che la politica di disintermediazione non è un’innovazione di questo governo: il primo a teorizzarla sistematicamente fu proprio il governo Renzi. Da allora la voce del lavoro è stata svalorizzata, con gli evidenti effetti di sfiducia nella politica e nella rappresentanza. Il governo Meloni lucra su questo disagio, che ha probabilmente favorito il suo risultato elettorale, e proprio per questo va denunciato con forza che la convocazione il giorno prima alle 19 è un’offesa nei confronti dei rappresentanti dei lavoratori! Convocare il Consiglio dei ministri in quella data, come voler dire “noi il Primo maggio lavoriamo mentre voi fate festa”, è un altro insulto alla festa dei lavoratori e alla sua storia. Tutto questo si ribalta solo se il lavoro rilancia la sua capacità di mobilitazione, di protagonismo, proponendo anche modalità e forme di risposte e rivendicazione nuove e non chiedendo solo incontri al governo.

Il 28 aprile nella giornata sulla sicurezza i giornali hanno riportato un più 17 per cento di incidenti letali sul lavoro. Il nuovo codice degli appalti che prevede sub appalti a cascata  e ad affidamento diretto rischia di aggravare questa strage?
Non nascondo una grande preoccupazione sulla sicurezza del lavoro, una strage continua e non vista. Si continua a morire come 50 anni fa: nell’era della tecnologia non si spende un minuto per pensare come progettare ed usare la tecnologia per prevenire gli infortuni e si continua a precarizzare il lavoro, pur sapendo che insicurezza e precarietà sono determinanti per la crescita degli infortuni. Il codice degli appalti è una iattura per questo tema. Polverizzare gli appalti attraverso il subappalto e gli affidamenti diretti, che sono la negazione della sicurezza, renderà impossibili i controlli: è il festival del minor costo grazie a minori tutele.

Fenomeni come quello delle grandi dimissioni che riguardano anche il nostro Paese mettono al centro la questione della qualità del lavoro, del rifiuto dello sfruttamento, della qualità della vita e delle relazioni umane. È tempo di ripensare il lavoro  in una dimensione collettiva, più giusta e più umana?
Il fenomeno delle dimissioni o del rifiuto di accettare proposte di lavoro che hanno più in comune con lo sfruttamento che con un lavoro che – come ha magistralmente ricordato il presidente Mattarella ieri – dovrebbe avere invece una funzione in primo luogo emancipatoria, conferma che oltre naturalmente alle retribuzioni, anche le condizioni e i ritmi di lavoro sono fondamentali per assicurarne la qualità. Un esempio tra tutti è quello degli orari, che vanno assolutamente ripensati. È tempo di interrogarsi sull’invasività del lavoro nella vita delle persone, sulla cancellazione del tempo per sé, sulla svalorizzazione della cura, sulle solitudini che determina questa infinita rincorsa che – come ci dicono anche le statistiche – non aumenta la produttività, e moltiplica le diseguaglianze. I Paesi a miglior performance economiche hanno orari più regolati e contenuti e ragionano di riduzione di orario. Ci diciamo che le tecnologie ridurranno il lavoro umano ma continuiamo ad allungare gli orari e a ridurre i salari perché non c’è redistribuzione dei profitti. Si è il momento di ripensare al lavoro, e basterebbe guardare al dibattito del mondo per cogliere quanto siamo sempre più periferici.

*

Consigli di lettura: Susanna Camusso ha appena pubblicato il libro Facciamo pace, una guerra, tante guerre considerazioni per un mondo più giusto (Strisciarossa edizioni) con la collaborazione di Altero Frigerio e Roberta Lisi

Foto di Paolo Visone

Direttore responsabile di Left. Ho lavorato in giornali di diverso orientamento, da Liberazione a La Nazione, scrivendo di letteratura e arte. Nella redazione di Avvenimenti dal 2002 e dal 2006 a Left occupandomi di cultura e scienza, prima come caposervizio, poi come caporedattore.