L'arrivo dei talebani ha fatto crollare tutti i suoi progetti: l'università e l'impegno per i diritti delle donne. Ecco la storia di una ragazza che vuole darsi da fare "per un mondo più giusto”. Per sostenerla negli studi in Italia, è partita una raccolta fondi con Produzioni dal basso

Kabul – Fatema (nome di fantasia per motivi di sicurezza) ha ventiquattro anni, un ciuffo di capelli color notte che le esce dall’hijab di seta e pupille vispe di chi è abituata a cercare risposte oltre la linea dello sguardo.
È nata tra le strade vibranti di vita e commercio di Herat, cittadina dell’Afghanistan occidentale incastonata tra le colline erbose ai lati del fiume Hari a pochi chilometri dal confine iraniano, durante il primo regime talebano.
Si dice che a Herat se inciampi su una pietra per strada rischi di rotolare addosso a un poeta.

È così che Fatema, nonostante una sharia violentemente rigida imposta dal governo di Kabul, cresce cullata dai refoli di una cultura divenuta clandestina agli occhi della legge. La distanza dalla capitale e la sagacia della famiglia di ampie vedute permettono di trovare spiragli alla repressione culturale. Da bambine, Fatema e le sue due sorelle vengono educate a casa dalla madre insegnante di scuola media. I genitori mettono da parte i fondi per la loro educazione, non per la dote.
In questo connubio tra clandestinità e progressismo sente farsi presente la consapevolezza che, nonostante il tempo avverso, esistono sogni che non possono essere relegati al mantra già scritto di un matrimonio precoce e una clausura forzata tra le grate del burqa.

«Sin da adolescente volevo darmi da fare per un mondo più giusto, soprattutto per le donne oppresse. Il mio sogno era lavorare alla Corte Penale Internazionale dell’Aia, lì dove sono perseguiti i crimini più efferati, lì dove si cercano di ricucire gli strappi della violenza più atroce» racconta mentre con lo sguardo sembra cercare un punto invisibile al di là della zanzariera della finestra, nel blu primaverile del cielo di Herat. «È con questo sogno che mi sono iscritta all’università durante il periodo della repubblica».
Nel 2020 si laurea in scienze politiche in una delle principali università di Herat. I tempi sono cambiati dal periodo di repressione talebana e per le studentesse afgane si aprono spiragli insperati.
Riceve varie proposte di borse di studio per continuare il percorso accademico in India e Kazakistan ma il richiamo viscerale verso i luoghi che l’hanno vista crescere e che finalmente sembrano aprirsi ad una possibilità di cambiamento la trattengono in Afghanistan.

In poco tempo la propria parola si fa simbolo del diritto allo studio per le donne del Paese, per troppi anni schiacciato dal peso di una visione misogina e retrograda. Viaggia in giro per l’Afghanistan prendendo parte a convegni e incontri di empowerment, e contribuendo a inspessire l’humus di una nuova consapevolezza di genere in un Paese trafitto da decenni di conflitto.
È proprio quando comincia ad assumere le fattezze di una realtà in divenire che il sogno di giustizia di Fatema si sgretola, d’improvviso, sfumando nelle fattezze aride del deserto tante volte accarezzato con lo sguardo durante i suoi viaggi.

Nel 2021 i talebani tornano al potere e con uno dei primi decreti vietano alle ragazze di frequentare scuole secondarie e università. Fatema non può proseguire i propri studi specialistici e trova un riparo di fortuna nel lavoro con una ong internazionale.
Giusto il tempo di immaginare un nuovo futuro possibile ed ecco che l’ennesimo decreto del governo del Mullah Akhundzada entra in vigore nel dicembre 2022 per vietare a tutte le donne anche il diritto al lavoro, sulla scia di un’applicazione distorta e miope di una legge islamica che nella sua radice prevede tutt’altro.
È la recrudescenza dell’ideologia machista in cui Fatema era nata e che improvvisamente torna a offuscare qualsiasi barlume di dignità.
Divieto di lavoro significa la stabilizzazione di un sistema di segregazione forzata che ha conseguenze dirette spaventose in termini di crescita della violenza di genere e della disuguaglianza economica.

Ad oggi, secondo i dati Onu, l’87% delle donne in Afghanistan subisce violenze fisiche e psicologiche. Di fronte a questa normalizzazione dell’aggressione le risposte in termini di strutture e presidi di assistenza sono pressoché assenti, fatta eccezione per le poche organizzazioni umanitarie internazionali ancora attive nel Paese. Allo stesso tempo il 70% delle donne vive in uno stato d’insicurezza alimentare e circa il 50% è analfabeta (UN Women).
«Ho lottato perché a me e alle mie sorelle venisse riconosciuto il diritto a una vita normale, il diritto a uscire di casa, lavorare, imparare a leggere. Oggi tutto questo è tornato ad essere una lontana utopia» ammette sconfortata. «Non vedo nessuna possibilità di cambiamento adesso, per questo vorrei poter studiare all’estero e, chissà, tornare quando le cose saranno diverse».

Purtroppo anche il nuovo sogno di Fatema si scontra con la triste realtà di una comunità internazionale che dopo aver abbandonato il territorio militarmente in maniera rocambolesca nel 2021 sembra aver relegato in secondo piano anche i diritti della popolazione. I fondi internazionali destinati a supportare le borse di studio delle studentesse afgane, così come quelli in ambito umanitario, sono diminuiti drasticamente negli ultimi due anni e con loro la possibilità di studio fuori dal Paese.
Nonostante Fatema abbia vinto l’accesso al prestigioso Global Campus of Human Rights di Venezia per prendere parte a un master in Diritti umani e democratizzazione, non sono disponibili agevolazioni economiche per sostenere il suo percorso.
Per superare quest’ennesimo ostacolo è stata da poco lanciata una raccolta fondi online su Produzioni dal Basso che mira a raggiungere la cifra necessaria per garantire un anno di studio nella città italiana.

«Grazie a tutti coloro che contribuiranno, o anche solo leggeranno la mia storia e condivideranno questa campagna. Non avete idea di quanto significhi per me».
Fatema è l’immagine di un Paese sconquassato da decenni di conflitto e violenza, bucherellato dai tarli di una politica fatalmente misogina, che nonostante tutto non si arrende al corso di questa storia infinitamente più grande ma ne abbraccia le storture per farne sguardo nuovo verso quello che ancora non è.
Lo studio come strumento di emancipazione, la cultura come passaggio verso un orizzonte di giustizia. In fondo, è come riallacciare il legame di sangue con la sua Herat, città che non ha mai smesso di abbracciare il ritmo della poesia che non sa arrendersi alla barbarie.